GOOGLE PASSA AD HONG KONG, PECHINO COLPISCE
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GOOGLE PASSA AD HONG KONG, PECHINO COLPISCE

GOOGLE PASSA AD HONG KONG, PECHINO COLPISCE

Caso Google
GOOGLE PASSA AD HONG KONG, PECHINO COLPISCE
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Pechino, 23 mar. - Attacco, parata, contrattacco: Google prova ad eludere la censura cinese e si prenota  un visto per Hong Kong; Pechino ribatte colpo su colpo, mostrando ancora una volta al mondo la potenza dei suoi mezzi informatici e la ferma volontà di non cedere alle pressioni esterne. Dalla notte tra ieri e oggi - la tarda serata di ieri in Italia - la versione cinese del motore di ricerca reindirizza verso Google.com.hk, in un tentativo di sbloccare i contenuti sgraditi al governo di Pechino; l'ex-colonia britannica, com'è noto, pur essendo tornata a far parte della Cina nel 1997, mantiene uno status di autonomia che include anche estese libertà di stampa. La mossa, però, non ha ottenuto i risultati preannunciati da Google: al momento, infatti, digitando da Pechino sulla versione di Hong Kong parole "sensibili" come "Dalai Lama", "Massacro Tiananmen", "Falun Gong" e "Rebiya Kadeer", tanto in cinese che in inglese, si accede esclusivamente ad una pagina vuota. Anche l'accesso a siti come YouTube, Twitter o Blogger, che in Cina erano bloccati da mesi, risulta impossibile, mentre quello a Picasa o Google Documents è esageratamente lento. Il filtro attivo su tutto il territorio cinese, soprannominato "La Grande Muraglia di Fuoco", si dimostra insomma capace di colpire anche Google.com.hk e, per quanto i blocchi possano variare da città a città, è ragionevole presumere che la stragrande maggioranza delle pagine e delle immagini sgradite non sia affatto sfuggita alle forbici virtuali dei censori, anche passando per Hong Kong. "Crediamo che questo nuovo approccio di fornire contenuti non censurati in cinese semplificato attraverso Google Hong Kong rappresenti una soluzione assennata alle sfide che abbiamo affrontato –si legge in un comunicato di David Drummond, vice presidente senior e responsabile affari legali della compagnia californiana -,si tratta di una misura interamente legale, che comporterà un significativo incremento nell'accesso alle informazioni per il popolo cinese". Pechino ha reagito furiosamente: "Le compagnie straniere che operano in Cina devono rispettare le leggi cinesi,- sostiene una nota diffusa dal China's State Council Information Office - e riteniamo completamente sbagliato sbloccare i filtri attivi sul motore di ricerca e muovere accuse infondate alla Cina in merito agli atti di pirateria informatica. Ci opponiamo fermamente alla politicizzazione delle questioni commerciali ed esprimiamo il nostro risentimento e la nostra rabbia verso gli attacchi e le irragionevoli pratiche di Google". Il caso Google contro la Cina era iniziato nel gennaio scorso, quando il colosso di Mountain View aveva accusato Pechino di essere all'origine di una serie di sofisticati attacchi hacker che avevano sottratto know-how riservato ad una trentina di compagnie statunitensi e violato le caselle email di alcuni dissidenti politici. Da allora Google aveva manifestato la volontà di abbandonare la Cina e sbloccare i filtri imposti dal Dragone su tutti i motori di ricerca; ma se quest'ultima decisione è stata effettivamente attuata tramite lo stratagemma di ridirezionare gli internauti cinesi alla versione di Hong Kong - peraltro reso vano dai software di censura -, il futuro della compagnia californiana in Cina appare ancora oscuro. Google ha promesso di mantenere nel Paese di Mezzo i propri centri di ricerca e sviluppo, ma il destino dei circa 600 dipendenti è ancora sconosciuto: Pechino, ad esempio, potrebbe reagire precludendo ai californiani gli investimenti in aree strategiche come quella della telefonia mobile. Con oltre 300 milioni di navigatori, quello cinese è il primo mercato internet al mondo: adesso Google potrebbe rinunciare, o essere forzata a rinunciare, a quella quota del 30% che si era faticosamente conquistata contro il colosso nazionale Baidu, che si troverebbe di fatto in una situazione di monopolio. L'affaire ha suscitato sentimenti contrastanti nell'opinione pubblica cinese. "Vanno via solo perché sono stati battuti da Baidu - scrive ad esempio un commentatore sul sito del quotidiano ufficiale Global Times - il nostro motore di ricerca in cinese che ha pesantemente sconfitto il leader americano. Adesso possiamo tornare a combattere sull'arena del mercato globale: questa storia dimostra che non c'è nessun campo in cui la Cina non possa battere l'America". Un nutrito gruppo di navigatori cinesi, però, ha indirizzato una lettera aperta ad entrambe le parti in causa, Google e il governo di Pechino, rivendicando il diritto di manifestare la propria opinione nel corso delle trattative: "Noi siamo d'accordo con l'applicazione della censura ad internet, che sia questa applicata a Google o ad altri motori di ricerca stranieri - si legge tra l'altro nella lunga lettera - ma chiediamo che sia vietata la censura preventiva e che non venga violato il diritto costituzionale alla libertà di espressione. La censura non deve nascondere al popolo informazioni in materia di servizi pubblici, opinione, istruzione, ricerca scientifica, notizie ed operazioni commerciali. Non vogliamo che Google ed il nostro governo prendano accordi in forma privata, negandoci la verità ed il diritto di costruire tutti assieme un futuro migliore". Ma da quando il caso è scoppiato, i media cinesi non perdono occasione per attaccare Google, sostenendo che la compagnia californiana obbedisca in realtà a un'agenda politica: "Google China non sta facendo business, ma sta portando avanti un tentativo di utilizzare internet come strumento di infiltrazione culturale e di valori - si legge in un editoriale dell'agenzia di Stato Xinhua pubblicato domenica - ed è inevitabile chiedersi se Google sia davvero una compagnia commerciale, e quali siano le vere intenzioni di chi la sostiene nell'ombra. Nessuno Stato sovrano potrebbe mai acconsentire a una diffusione tramite internet di contenuti che promuovono la sovversione, l'odio razziale, l'estremismo religioso, il terrorismo o che incitano alle cosiddette rivoluzioni colorate". Il nuovo capitolo della saga suscita nuovi interrogativi: quanto era consapevole Google della quasi totale inefficacia della mossa di ieri? Quali ripercussioni avrà sulle relazioni già tese tra Cina e Stati Uniti? La complessa partita virtuale sembra ancora lontana dalla fine.
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