L'analisi di 100 proteste tra il 2007 e il 2008 per fotografare l'evoluzione delle rivendicazioni dei lavoratori in Cina: il nuovo rapporto pubblicato dall'ONG di Hong Kong China Labour Bulletin mostra un mondo in continua evoluzione, che scorre sottotraccia rispetto alle rappresentazioni spesso stereotipate delle fabbriche cinesi. Il titolo del dossier, "Going it alone" ("Fare per conto proprio"), contiene già alcune conclusioni: per difendere i loro diritti i lavoratori cinesi organizzano sempre più spesso proteste pubbliche - che possono assumere le forme di marce, scioperi, sit in o blocchi delle strade- senza passare attraverso l'ACFTU, il sindacato. Le loro richieste si fanno più precise e articolate, godono spesso di consensi trasversali, ma sono concentrate su questioni pratiche e raramente assumono la forma di rivendicazioni politiche. Come possono riflettersi questi cambiamenti sui governi locali e sulle imprese straniere? E come potrebbe evolversi il rapporto con il sindacato? "Sicuramente c'è più consapevolezza, dovuta soprattutto alle maggiori informazioni che circolano dopo l'entrata in vigore della nuova legge sui contratti di lavoro – spiega Ivan Franceschini, autore del libro "Cronache dalle fornaci cinesi", pubblicato dalla casa editrice Cafoscarina - ma ritengo che al momento sia difficile assistere a piattaforme più organizzate. Non ci sono i mezzi per creare una rete e in Cina le controparti sono sempre state molto brave a dividere i lavoratori. Quello che succede dopo queste proteste, solitamente, è che si cerca di venire incontro a qualche richiesta dei dipendenti, isolando i gruppetti che sembrano più organizzati. Sul fronte delle imprese straniere, i media cinesi hanno dato un'interpretazione nazionalista della crisi globale attualmente in corso e le compagnie estere potrebbero essere un po' più esposte alle proteste di quelle cinesi, ma non mi sembra che si vada in questa direzione: i governi locali hanno comunque la necessità di attirare investimenti dall'estero". Il diritto di sciopero è stato formalmente abolito dalla costituzione nel 1982 perché "non necessario sotto il sistema socialista cinese" e la nuova legge sul contratto di lavoro entrata in vigore l'anno scorso non ha introdotto niente di simile: attualmente gli scioperi si trovano in un'area grigia, e in Cina non sono né legali né illegali. La polizia è intervenuta in almeno 61 dei 100 casi esaminati, secondo la norma che prevede la dispersione forzata di qualsiasi manifestazione che metta "seriamente in pericolo l'ordine pubblico" e, nelle occasioni peggiori, i leader delle proteste rischiano fino a quattro anni di carcere. Secondo il dossier, su 100 casi (che hanno coinvolto da qualche dozzina di manifestanti fino a 10mila persone), neanche una delle proteste era stata organizzata dall'ACFTU. "Il sindacato cinese non ha un ruolo antagonista – spiega Franceschini – e i rappresentanti vengono nominati per cooptazione dagli organi ufficiali. Recita una parte diversa: può presentare le istanze dei lavoratori durante il dibattito sulle nuove leggi e ha il mito della doppia vittoria, quella che fa contenti lavoratori e datori di lavoro. Il massimo ruolo che gli veniva riconosciuto dalla prima bozza della nuova norma era un diritto di veto sui regolamenti aziendali. Ma il diritto di sciopero è sempre rimasto fuori discussione". Secondo CLB, solo in 3 casi sui 100 analizzati si può parlare di una completa sconfitta dei lavoratori; in 37 casi le richieste sono state accolte completamente o in parte mentre in tutte le altre occasioni il risultato finale è poco chiaro. I governi locali tendono spesso ad un atteggiamento ambivalente: i funzionari arrivano prontamente sulla scena dei disordini e discutono con i manifestanti, ponendosi come mediatori con i datori di lavoro; contemporaneamente, si adoperano per punire i leader dei movimenti. Lo studioso di questioni sindacali cinesi James Scott definisce queste proteste una "resistenza quotidiana" delle fasce più deboli della società che "non hanno il fine di rovesciare un sistema oppressivo, ma semplicemente di limitare le perdite". Ma il dossier, forse ottimisticamente, sostiene che "i lavoratori cinesi sono sempre più consapevoli dei loro diritti" e quella che era iniziata come resistenza quotidiana potrebbe diventare la "piattaforma per qualcosa di più grande", anche perché le manifestazioni coinvolgono sempre più categorie diverse dagli operai, come insegnanti e tassisti. Le nuove forme di protesta possono portare il sindacato a ritagliarsi un ruolo differente? "Si può sperare in un'evoluzione, ma non ci sono segnali per affermarlo - conclude Franceschini - perché spesso non siamo in grado di sapere come va avanti il dialogo interno al sindacato".