GLI USA EVITANO IL DEFAULT, MA PER PECHINO E' UNA VITTORIA

GLI USA EVITANO IL DEFAULT,  MA PER PECHINO E' UNA VITTORIA

di Lorenzo Stanca

 

Milano, 03 feb. - Rullano i tamburi, suonano le trombe: l'inarrestabile marcia di Shanghai verso il ruolo di piazza finanziaria internazionale è cominciata. E' di qualche giorno fa la pubblicazione da parte della Commissione Nazionale per le Riforme e lo Sviluppo - il più potente organo di pianificazione economica del governo cinese - e della municipalità di Shanghai di un programma dettagliato per portare entro tre anni Shanghai sul livello di New York, Londra e Hong Kong. L'ascesa di Shanghai come piazza finanziaria avverrà di pari passo con quella dello yuan come valuta internazionale. E gli autori del documento citano anche l'obiettivo, sia pure alquanto opaco, di raggiungere nel 2015 un volume di scambi "non forex" pari a 1000 miliardi di euro, dai 400 dello scorso anno. Quanto è credibile questo obiettivo? Vedremo davvero in poco tempo Shanghai diventare uno dei gangli del sistema finanziario internazionale?

 

La Cina negli ultimi trenta anni ci ha abituato a tutto. Obiettivi a prima vista inarrivabili, sono stati raggiunti e superati in scioltezza. Piani che a tavolino parevano frutto dell'immaginazione di un mitomane, sono stati centrati anche prima delle scadenze. E quindi è evidente che in questo caso, prima di fare i San Tommaso è il caso di rifletterci bene. Ma dopo averci riflettuto bene, il dubbio sulla fattibilità del piano rimane, e anzi diviene più grande.

 

Le ragioni di tale scetticismo sono essenzialmente tre, strettamente legate tra loro. Innanzitutto realizzare una grande piazza finanziaria non è un'impresa facilmente pianificabile, anche per chi è riuscito a pianificare l'impossibile. Si tratta infatti di una ricetta i cui ingredienti sono di difficile reperibilità. La letteratura scientifica ha analizzato a lungo quali sono le premesse per cui professionalità e capitali tendono a concentrarsi in poche città, con la prevalenza di uno/due centri di riferimento per ogni macro fascia oraria (Londra, Hong Kong/Singapore, New York), anche nell'era della comunicazione facile. Le conclusioni degli studi condotti non sono univoche. A spiegare il fenomeno della concentrazione vi sono elementi strutturali quali il patrimonio storico/culturale, il quadro normativo, il peso delle istituzioni finanziarie di riferimento, l'apertura all'estero. Di certo, l'essere la capitale finanziaria di una grande e importante economia è un fattore relativamente poco importante (e infatti solo New York corrisponde a questo ritratto). Comunque la si voglia vedere, Shanghai è molto lontana dal possedere i requirement necessari per spiazzare Hong Kong e Singapore.


Secondo fattore è che il settore finanziario cinese è ancora significativamente arretrato (e in termini relativi lo è molto di più di  altri settori). Le banche, grandi e piccole, finanziano ancora in maniera sproporzionata aziende a matrice pubblica, quando non si concentrano addirittura su impieghi ad enti locali. Il quadro normativo è frammentario e vetusto e, ancor più importante, le prassi operative sono ancora improntate a modelli del tempo che fu, anche nelle aree più progredite del paese. Con le banche concentrate a prendere in garanzia tutto il possibile a chi osa chiedere un prestito e a non prestare più di un sottomultiplo del valore preso in pegno. Poco sviluppate sono le funzioni finanziarie, anche perché i vincoli posti dalla regolamentazione sono molto forti ed è poco incoraggiato lo sviluppo di un mercato sofisticato che preveda ad esempio la trattazione di contratti derivati sui principali valori mobiliari.

 

Il terzo fattore è la persistenza di un complesso e pervasivo meccanismo di controlli ai movimenti di capitale che restringe, limita e scoraggia gli afflussi e i deflussi di capitali finanziari in e dalla Cina. La borsa cinese è di fatto chiusa all'investimento e alla quotazione da parte di soggetti stranieri. Il listino internazionale, annunciato due anni orsono, è ancora di là da venire. Ma anche se si partisse domani, ci vorrebbero anni prima che si potesse arrivare a un numero significativo di società quotate. I vincoli all'uscita non sarebbero affatto necessari da un punto di vista macroeconomico (la Cina ha un enorme surplus strutturale di bilancia dei pagamenti). Ma sono il frutto di un approccio dirigista alla politica economica che assegna al governo e alle sue ramificazioni il ruolo di gestore unico delle attività verso l'estero. Per cui, ad esempio, la Cina sarà pure il maggior detentore di titoli di stato americani, ma non ci sono istituzioni finanziarie cinesi che ne abbiano mai posseduto uno. L'unico a farlo è il gestore delle riserve. E' intuitivo capire come in un mondo così è assai difficile si possa sviluppare una piazza finanziaria di riferimento mondiale.

 

Ma forse, in definitiva, è un quarto fattore che va tenuto presente e che ricomprende tutti e tre quelli citati. La Cina è un'isola. Lo è intrinsecamente, nel senso che rispetto al resto del mondo questo affascinante paese, per le sue caratteristiche culturali, per la sua storia e per le due dimensioni, mantiene una distanza culturale, politica e di visione del mondo, che rendono assai arduo quel processo di sostanziale apertura e assimilazione di modelli, regole e valori "internazionali", che invece in paesi più piccoli, sia pure di cultura di base tanto simili, come Hong Kong e Singapore è stato sicuramente possibile. Ci vorranno molti anni e profonde trasformazioni, forse anche politiche, che oggi è arduo immaginare, perché si possa giungere ad un'adozione totale e incondizionata del modello del capitalismo finanziario che sta alla base dello sviluppo di una piazza finanziaria.

 

L'approccio di Tommaso, insomma, di fronte all'annuncio di Shanghai Caput Mundi Finantiae, resta quello più ragionevole. Pronti ad essere smentiti e sorpresi ancora una volta dall'incredibile fenomeno d'oriente.



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