Forse a Pechino non è tutto oro
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Forse a Pechino non è tutto oro

Forse a Pechino non è tutto oro

Mezzo flop. Il colosso californiano non ha avuto il ritorno sperato
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SHANGHAI. Dal nostro corrispondente
Ma quale amore per la libertà d'informazione! Google minaccia di andarsene dalla Cina solo perché su questo mercato ha incassato sonore delusioni ed è stata eclissata dal gigante internet domestico, Baidu. Secondo la stampa cinese, è questo il vero motivo che avrebbe spinto il portale americano a dare un aut aut al governo cinese: niente censura, oppure ce ne andiamo.
Può darsi che gli addomesticati commentatori cinesi abbiano anche ragione. Dieci anni dopo il suo sbarco oltre la Grande Muraglia, Google non è riuscita a conquistare una posizione di leadership. E vista la forza acquisita frattanto dai suoi concorrenti locali, in particolare Baidu che detiene il 60% del mercato dei portali, non ci riuscirà mai. I risultati del suo investimento continuano a essere modesti, giacché il mercato cinese genera meno dell'1% dei profitti realizzati globalmente dal gruppo. Insomma, un mezzo fallimento.
Fin dai tempi dei tempi, mercanti, imprenditori, trafficanti e manager occidentali hanno guardato alla Cina come un mercato sconfinato, cullandosi nella convinzione che sarebbe bastato raggiungere un'infinitesima frazione della popolazione cinese per diventare ricchi. Si sbagliavano ieri, e si sbagliano ancor di più oggi: fare quattrini in Cina è tutt'altro che facile.
Quali che siano le motivazioni che hanno spinto Google a minacciare una clamorosa ritirata da Pechino, un fatto è certo: negli ultimi anni, per le aziende straniere il business environment in Cina è progressivamente peggiorato. Sono aumentate le imposte, sono esplosi gli oneri sociali, è cresciuto il costo del lavoro, le nuove leggi sull'ambiente costringono le imprese a sobbarcarsi pesanti costi aggiuntivi. Inoltre, il mutamento del quadro normativo rappresenta un elemento d'incertezza con cui fare costantemente i conti.
«Più che peggiorato, direi che l'ambiente imprenditoriale cinese si è normalizzato», osserva Cristiana Barbatelli, direttore generale di Pas Advisors. «Aumentano i regolamenti perché la normativa deve adeguarsi al mutamento delle aziende, dei prodotti, del mercato. Tutto ciò, ovviamente, crea una turbolenza informativa dentro la quale spesso le aziende straniere fanno fatica a orientarsi».
Le nuove regole, ovviamente, valgono per tutti: per le società straniere, come per quelle domestiche. Ma è anche vero, come lamentano sempre gli imprenditori d'oltremare, che i controllori cinesi sono spietati e puntigliosi nell'applicazione puntuale delle normative con le imprese straniere (è il caso, per esempio, delle nuove leggi ambientali e per la sicurezza sul lavoro), mentre tendono a chiudere un occhio con quelle locali.
Questa disparità di trattamento, ovviamente, crea un'asimmetria che si riflette sui costi generali e quindi sulla competitività. Il che può risultare un fattore penalizzante per un'azienda straniera, soprattutto nei settori caratterizzati da bassi margini di profitto.
Il problema centrale, tuttavia, è di natura strategica. Molto spesso le aziende straniere si gettano impreparate nell'avventura cinese. E i risultati sono disastrosi. «Un errore molto frequente è pensare di applicare alla Cina lo stesso business model già adottato con successo in Europa o negli Stati Uniti», spiega Saro Capozzoli, direttore di Jesa Consulting. «Ma questo mercato in tutti i settori funziona con dinamiche sue particolari, che richiedono uno studio e una valutazione approfondita. Chi lo comprende e si struttura adeguatamente ha ottime probabilità di avere successo in Cina».
L. Vin.
© RIPRODUZIONE RISERVATA

15/01/2010
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