Pechino, 15 mar. - La responsabilità del fallimento del più imponente investimento cinese all'estero di tutti i tempi? Vanno ricercate "nelle forze di mercato" e "nella campagna lanciata da BHP Billiton", almeno secondo un rapporto recentemente compilato dal Consiglio di Stato - la principale autorità amministrativa cinese - e reso noto da Fairfax Media. L'affare da 19.5 miliardi di dollari col quale la compagnia di Stato Chinalco nel giugno scorso tentò di acquisire il controllo del colosso minerario australiano Rio Tinto, secondo il dossier, sarebbe sfumato a causa della "rapida ripresa del mercato mondiale delle risorse, incluso il relativo mercato azionario, che è andata al di là di ogni previsione", e anche per via di una serrata azione di lobbying da parte di BHP, capace "con una sapiente opera di proaganda sui mass media" di suscitare l'emozione dell'opinione pubblica e influenzare così le decisioni del governo": la posizione di Pechino appare come un ammorbidimento rispetto a quelle mantenute in precedenza, che accusavano il governo australiano e la stessa Rio Tinto di aver attuato una forma di protezionismo per sbarrare alla Cina la strada verso un investimento ritenuto di importanza fondamentale per lo sviluppo della nazione. Sull'onda dei ritmi vertiginosi del suo sviluppo, il Dragone ha sempre più bisogno di commodities di tutti i tipi, tra le quali i minerali giocano un ruolo di primo piano: da qui il tentativo di entrare direttamente in Rio Tinto, che controlla un'immensa quota del mercato. Il fallimento delle trattative, anche a causa di un'effettiva opposizione dell'opinione pubblica australiana - preoccupata dall'attivismo cinese nel controllo delle risorse naturali nazionali - aveva generato una polemica sfociata in un vero e proprio caso internazionale: un mese dopo il naufragio degli accordi, quattro dirigenti Rio Tinto in Cina (tra cui il cittadinoaustraliano Stern Hu) sono stati arrestati con l'accusa di spionaggio, poi trasformata in corruzione, e sono tuttora in attesa di giudizio in quella che da più parti era sembrata come una vera e propria ritorsione. Nel frattempo, nell'affare era subentrata la stessa BHP Billiton, prima compagnia mineraria al mondo, di proprietà anglo-australiana: "Si è assistito a una mancanza di esperienza, talento e acutezza politica da parte cinese - si legge nel rapporto -, la Cina non è stata capace di comunicare a con gli azionisti Rio Tinto e di usare adeguatamente i suoi lobbisti. Abbiamo voluto troppo e troppo velocemente". Sembra che il mea culpa del Dragone sia stato bene accolto dai vertici del governo australiano, mentre la BHP Billiton non ha rilasciato alcun commento. "È importante la consapevolezza da parte del governo cinese che l'affare sia sfumato per ragioni commerciali" ha dichiarato oggi il ministro del Commercio di Camberra Simon Crean, mentre le relazioni tra i due paesi paiono tornate sul sereno. Quella per il controllo delle commodities mondiali è stata definita da un ex negoziatore della brasiliana Vale "una complessa gigantesca partita a scacchi" e il Dragone, visto il suo continuo bisogno di risorse naturali, sembra capace di alternare ai toni più duri una diplomazia prudente e felpata.