Diamo allo yuan quel che davvero gli spetta
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Diamo allo yuan quel che davvero gli spetta

Diamo allo yuan quel che davvero gli spetta

Il dibattito sulla valuta cinese
di lettura
di Fabrizio Onida

Un commento di Jim O'Neill, capo economista alla Goldman Sachs, pubblicato sul Sole 24 Ore del 2 aprile, informa che secondo il modello econometrico della casa lo yuan non è più oggi sottovalutato come risultava cinque anni fa. Lo stesso economista avanza cautele sulla capacità dei modelli d'interpretare correttamente l'evoluzione di sistemi in così rapida trasformazione come la Cina nell'ultimo decennio. Ritengo particolarmente doverose queste cautele, perché diversi elementi del quadro suggeriscono invece al governo cinese di riprendere presto quel graduale apprezzamento dello yuan sul dollaro che, iniziato con grande enfasi nel luglio 2006, si è interrotto dall'estate del 2008, arrestandosi su un modesto 18% (l'attuale 6,83 yuan per dollaro).
Primo, è vero che il forte avanzo delle partite correnti (merci e servizi) nella bilancia dei pagamenti con l'estero della Cina è andato negli ultimi due anni ridimensionandosi (dall'11% del Pil del 2007 a poco più del 5% previsto dall'Ocse per il 2010-2011) come effetto combinato di una vigorosa crescita delle importazioni (trainate a loro volta da una crescita a due cifre dei consumi e soprattutto degli investimenti) e di un rallentamento delle esportazioni (riflesso della crisi reale e finanziaria dei paesi avanzati). Ma resta il fatto che, a quel ritmo di 250-300 miliardi di avanzo annuale previsto nelle partite correnti del 2010-2011, combinato con un tendenziale pareggio tra entrate e uscite di capitali (investimenti diretti e di portafoglio), l'attuale politica di cambio ancorato al dollaro comporta un continuo accumulo di riserve ufficiali ben oltre l'attuale livello già oggi record di oltre 2.300 miliardi di dollari. Circa due terzi di quell'avanzo delle partite correnti è nei confronti degli Usa, il maggior paese capitalistico divenuto il maggior debitore del mondo finanziato dal grande creditore cinese.
Che questa situazione non sia alla lunga sostenibile è attestato, oltre che dalla teoria economica e dalla storia, dal crescente nervosismo del mondo politico americano. L'ultima agenzia di Nouriel Roubini ci informa che un gruppo bipartisan di parlamentari statunitensi ha firmato una lettera per chiedere che la Cina venga formalmente accusata di "manipolazione del cambio", una violazione di quelle regole di fair trade che secondo alcuni (come Arvind Subramanian del Peterson Institute) sono oggi solo implicite, ma andrebbero ormai formalizzate negli impegni della Wto, di cui la Cina fa parte da un decennio. E con qualche sorpresa sono di recente emerse voci autorevoli di economisti non sospetti di colbertismo, come il Nobel Paul Krugman, che non escludono l'uso di un maggior ricorso a misure protezionistiche contro una così prolungata manipolazione del cambio da parte di una potenza economica come la Cina.
Finora le misure intraprese, come i dazi Usa anti-dumping sugli pneumatici cinesi, sono state modeste. E nessuno auspica l'aprirsi di una violenta controversia commerciale. Ma va ricordato che una persistente sottovalutazione del cambio equivale a una potente miscela di sussidio alle esportazioni ed equivalente tassa sulle importazioni: proprio il contrario di quanto ci si aspetta da un importante paese in strutturale avanzo esterno. A fronte delle criptiche dichiarazioni di Wen Jaibao («Manterremo la stabilità del renminbi a un livello ragionevole e bilanciato») resta il problema di un "cambio forzoso" dello yuan che continua a scaricare l'aggiustamento degli squilibri globali post-crisi 2008 su Usa e i paesi europei in deficit (Germania esclusa): un gioco non cooperativo che rischia di favorire esiti recessivi o di prolungata depressione nell'Occidente, come spesso ricordano i commenti di Martin Wolf.
Secondo, appare poco rilevante l'eventuale obiezione che un apprezzamento consistente del yuan/dollaro comporterebbe una perdita di potere d'acquisto delle riserve ufficiali. Infatti, come annotava Arvind Subramanian sul Wall Street Journal del 25 marzo, con l'attuale livello di riserve una rivalutazione del 20% del cambio sul dollaro comporterebbe una perdita di circa il 10% sul Pil cinese: una perdita che verrebbe ampiamente compensata nel medio periodo dall'incremento nella produttività totale dei fattori, la quale nell'ultimo quinquennio si è aggirata sul 4% all'anno e verrebbe ulteriormente stimolata dalla maggiore efficienza e più rapida riconversione produttiva indotta dall'apprezzamento del cambio.
Terzo, l'entità dell'attuale sottovalutazione dello yuan è ben illustrata dal seguente confronto, citato nell'ultimo contributo dell'Ocse al China Development Forum (20-22 marzo): la quota della Cina sul Pil mondiale calcolato a parità dei poteri d'acquisto - la quale tiene conto dei bassi prezzi dei servizi che non entrano negli scambi internazionali - è arrivata nel 2009 al 12,5% (partendo dal 2% del 1980 e dal 7% del 2000) ma è inferiore all'8% se calcolata ai tassi di cambio correnti di mercato.
La continua vigorosa crescita della domanda interna, di cui la Cina ha assoluto bisogno per creare posti lavoro e soddisfare i pressanti fabbisogni di beni e servizi pubblici e privati (sanità, trasporti, istruzione, energia, eccetera), riducendo la propria dipendenza dalle esportazioni, comporta una spinta verso l'alto dei prezzi. Data una stabile inflazione all'estero, un apprezzamento del cambio reale dello yuan sarà così inevitabile. La Cina dovrà allora scegliere tra mantenere il cambio nominale agganciato al dollaro al prezzo di spinte inflazionistiche interne o accettare un apprezzamento del cambio nominale con un'inflazione allineata: la seconda opzione sembra ovviamente di gran lunga vantaggiosa anche per la Cina, non solo per l'economia mondiale.
© RIPRODUZIONE RISERVATA

04/04/2010
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