Roma, 7 dic. – Mentre la 16° Conferenza sul clima delle Nazioni Unite in corso a Cancun entra nel vivo, Pechino fa un passo in avanti e riaccende le speranze di un'apertura al dialogo climatico. E lo fa attraverso il capo negoziatore Xie Zhenghua, il quale ha reso noto che la Cina è disposta a tagliare del 40-45%, rispetto ai dati del 2005, le emissioni di Co2 entro il 2020; un impegno che avverrà "all'interno di una risoluzione che sia vincolante" allo scopo di "trasformare gli sforzi di Pechino in parte dell'impegno internazionale". Gli obiettivi fissati dall'esecutivo "sono del tutto volontari", con questo dettaglio Xie sottolinea ancora una volta come il protocollo di Kyoto fissi un diverso grado di responsabilità e di impegno nella pulizia del pianeta a seconda che si tratti di un Paese industrializzato o emergente. Se secondo la Carta di Kyoto firmata nel 1997 e in scadenza nel 2012, le economie industrializzate hanno l'obbligo di ridurre le emissioni di carbonio, diverso è il caso dei Paesi emergenti il cui impegno non è vincolato ad alcuna legge, in quanto tali restrizioni ne minerebbero lo sviluppo economico.
Oltre a modificare il quadro generale, la proposta della Cina riaccende le speranze di molti osservatori internazionali che avevano già guardato al vertice messicano come all'ennesimo flop climatico, memori degli scarsi risultati ottenuti dagli ultimi due meeting sui cambiamenti climatici tenuti l'anno scorso a Copenhagen e a ottobre a Tianjin. In entrambe le occasioni è emersa una situazione di empasse provocata dalle diverse 'correnti di pensiero' dei due schieramenti – nazioni industrializzate da un lato e in via di sviluppo dall'altro – guidati rispettivamente da Washington e Pechino. Mentre finora il primo ha spinto affinché Cina e India – che si collocano tra le nazioni più inquinanti al mondo – siglassero accordi internazionali sul taglio alle emissioni, Pechino ha più volte dimostrato di non voler rinunciare in alcun modo ai benefit che il suo status di "Paese in via di sviluppo" offre. Divergenze queste che hanno fatto sì che entrambi i vertici si concludessero senza la firma di accordi vincolanti, almeno fino alla tappa messicana. "Siamo di fronte a un cambiamento dei giochi" sostiene Jennifer Morgan dell'Istituto di ricerca mondiale di Washington. "Il pericolo potrebbe nascondersi nei dettagli, ma senz'altro c'è la promessa di uno sviluppo" le fa eco Alden Meyer della Union of Concerned Scientist statunitense.
Dietro la mossa inaspettata di Pechino a Cancun c'è anche il tentativo di spronare le nazioni industrializzate a estendere il protocollo di Kyoto, ipotesi che ha già provocato vari dissidi tra le realtà emergenti, che vogliono continuare a percorrere la 'strada giapponese', e i Paesi industrializzati, che rigettano tale opzione. Secondo Tokyo, Kyoto è "ingiusto" perché copre meno del 30% delle emissioni di gas nocivi nel mondo lasciando liberi molti Paesi di continuare nella loro politica inquinante. L'Ue invece vorrebbe rinegoziarlo e avviare allo stesso tempo un negoziato globale. In risposta, Pechino mostra il pugno di ferro: "Possiamo raggiungere qualsiasi tipo di compromesso, ma sulla questione di Kyoto non siamo pronti a trattare" ha dichiarato Huang Huikang, inviato del ministero degli Esteri cinese. E a seguire le orme della Cina è anche l'India che inserisce la questione di Kyoto tra le tre condizioni necessarie per aprire il negoziato. Le altre due condizioni, spiega il capo delegazione Jairam Ramesh, riguardano l'introduzione di un meccanismo di trasferimento tecnologico sicuro ed efficace e l'accelerazione dei finanziamenti a favore delle realtà emergenti stabiliti a Copenhagen.
Ma tra i Paesi in via di sviluppo riuniti a Cancun, è stata la Bolivia, in particolar modo, a far sentire la propria voce scagliandosi contro gli Stati Uniti, cui rimprovera di non essere riusciti ad approvare in tempo per il vertice messicano il Climate Bill su cui il presidente Barack Obama aveva puntato molto. Nel mirino boliviano non c'è solo Washington, bensì tutti i delegati dei governi accusati di vero e proprio "genocidio" da Pablo Solon, capo della delegazione di Sucre, a causa dell'insuccesso dei precedenti summit: "Dobbiamo trovare un accordo per la natura e per quelle 300mila persone che ogni anno muoiono a causa di disastri naturali. Qui si gioca con la vita umana. Come altro può essere chiamato se non genocidio?".
di Sonia Montrella
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