Cina, il primato va in porto
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Cina, il primato va in porto

Cina, il primato va in porto

Commercio internazionale. Le strategie del Paese asiatico per la conquista del dominio dei mari
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Paolo Migliavacca
Da tempo molti analisti indicano l'attuale come il "secolo asiatico", dopo l'800 "secolo europeo" e il 900 "secolo americano". Ma è sempre più evidente che, in realtà, si debba parlare di "secolo cinese": il progressivo spostamento degli equilibri geo-economici globali sta infatti producendo risultati spettacolari e la Cina acquisisce la supremazia in molti settori strategici.
Pechino sta infatti realizzando una leadership sempre più evidente nei principali comparti produttivi, tutti legati tra loro da un rapporto operativo coerente e lucido. Si è creata una sorta di "catena virtuosa" che, partendo dalla ricerca scientifica (la Cina spende ormai in R&S il 12,9% del totale mondiale ed è anche titolare del 12% dei brevetti rilasciati annualmente), prosegue con la produzione di beni e manufatti (lo scorso anno la quota di Pechino è salita al 21,7% del valore della produzione mondiale), si estende al commercio internazionale (il valore dell'interscambio cinese nel 2010 è salito al 9% del totale mondiale, con la Germania scavalcata come primo esportatore), per giungere al controllo dei mezzi con cui si effettuano gli scambi, cioè i porti e le flotte mercantili.
Qui è racchiuso il vero "segreto" degli spettacolari successi cinesi. Perchè i contenuti marittimi dei progressi economici cinesi nascono da un disegno assai lucido: assumere il controllo della catena logistica, dall'imbarco del prodotto alla sua consegna nel porto di arrivo, consente di limitare al massimo i costi dei beni scambiati riducendo nel contempo i rischi insiti nel trasporto stesso, dalla pirateria al terrorismo passando per i noli e le flotte in mano a Paesi e aziende potenzialmente ostili.
L'intera regione estremo-orientale negli ultimi anni ha adeguato continuamente i propri sistemi di trasporto per tenere il passo con l'aumento vertiginoso degli scambi commerciali. Il loro valore nel 2009 era salito al 29,3% del totale mondiale, ma il tonnellaggio della flotta che li ha trasportati raggiungeva il 39%, cioè 3.061,7 milioni di tonnellate su 7.842,8 milioni. Qui la Cina risulta ancora relativamente debole, con il 9% del totale mondiale (compresa Hong-Kong), ma occorre tener conto del l'effetto distorsivo prodotto dalle bandiere-ombra: al confronto, la flotta mercantile Usa è poco più di un settimo di quella di Pechino, quelle di Italia, Germania o Giappone circa un quinto ciascuna. Un ulteriore aiuto a distanziare i Paesi occidentali nasce dal fatto che la Cina realizza ormai circa il 40% del tonnellaggio totale annuo costruito a livello mondiale e che anche il suo libro ordini viaggia su quelle quote.
Inoltre, come mostrano le tabelle a lato, la Cina ha sviluppato un sistema portuale di primissimo livello, in grado di smistare con rapidità ed efficienza l'enorme volume di traffici: sono cinesi 10 dei primi 14 porti mondiali per movimentazione di merci generiche e 7 dei primi 11 specializzati in container.
Pechino è comunque cosciente che l'ambizione a mantenere questa supremazia marittima commerciale si alimenta solo con una costante ricerca di vie alternative, che da un lato riducano il rischio della saturazione portuale, dall'altro abbattano quello, squisitamente strategico, del passaggio dei traffici da punti critici assai vulnerabili, anche sotto il profilo del rischio terroristico, quelli che gli Usa chiamano chokepoints.
Per il primo aspetto si guarda con interesse (come del resto fanno anche Corea del Sud e Giappone) all'ipotesi di un'alternativa via terra all'export verso l'Europa, costituita in sostanza dalla ferrovia russa Transiberiana che, secondo Mosca, consentirebbe a un container di risparmiare 5-7 giorni di viaggio (circa 15, contro 20-22). Quanto ai chokepoints, quelli che incombono sulla Cina sono numerosi, andando dallo stretto di Malacca per i traffici generali a quello di Hormuz per quelli petroliferi, ma senza scordare lo stretto di Perim e il canale di Suez che chiudono il mar Rosso.
Per ridurre proprio questo tipo di rischio la Cina ha avviato la costruzione di una rete di basi navali a uso "duale" (misto civile e militare) lungo le coste dell'Oceano Indiano, denominata "filo di perle", con i porti di Sittwe e Coco Island in Birmania, Laem Chabang in Thailandia, Sihanoukville in Cambogia, Chittagong in Bangladesh, Hambantota in Sri Lanka, Gwadar in Pakistan, molti dei quali realizzati con fondi cinesi.
Pechino punta inoltre a estendere a livello globale la sua rete di scali controllati – Aden, Porto Said e il Pireo, ripercorrendo in modo curioso la via seguita nel l'800 dall'Impero britannico per garantire la sicurezza della "via delle Indie" –, fino a quello in costruzione ad Acu, in Brasile, da oltre 2 miliardi di euro, capace di ospitare navi da 400mila tonnellate. Negli anni scorsi ha assunto di fatto il controllo del canale di Panama attraverso i due porti che lo chiudono (Balboa sull'Oceano Pacifico e Colon sull'Atlantico), la cui amministrazione è stata assunta fino a metà del secolo dalla società multisettoriale Hutchison Whampoa, di Hong Kong.
Ma non basta. La Cina ha proposto in febbraio di costruire una ferrovia in Colombia, tra Cartagena e la costa del Pacifico, lunga 220 km e alternativa al canale di Panama, e ha allo studio il taglio dell'istmo di Kra, in Thailandia, a metà della penisola malese, a un costo stimato di 20 miliardi di dollari.
Progetti e finanziamenti, dunque, non mancano: il disegno teorizzato un secolo fa dallo stratega americano Alfred Mahan di dominio dei mari (e dunque del mondo) è stato fino a ieri perseguito dagli Usa. «Chi controlla l'Oceano Indiano domina l'Asia – profetizzò Mahan – Questo oceano sarà la chiave dei Sette Mari nel XXI secolo: il destino del mondo si deciderà in queste acque». Tuttavia, anche a causa della grave crisi politico-economico-strategica in cui è precipitata Washington, l'iniziativa sembra ormai passare nelle mani di Pechino.
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Chokepoint
Di «colli di bottiglia» (così si possono definire in italiano) sono ricchi i mari del mondo: se ne contano almeno 200, ma solo alcuni rientrano nella definizione comune negli Usa. Si tratta di quelli da cui transitano i flussi commerciali più importanti. Dallo stretto di Hormuz, che chiude il golfo Persico, passano da 15 a 17 mb/g (milioni di barili/ giorno), il 35- 40% del greggio scambiato a livello mondiale. Dallo stretto di Malacca transitano 14-15 mb/g (quasi la totalità di quanto consumato in Estremo Oriente), ma anche il 20- 25% del flusso mondiale di merci non petrolifere (5,5 miliardi di tonnellate). Flussi alquanto minori passano anche dai canali di Suez e Panama, Bosforo, Bab el Mandeb, Gibilterra e così via

08/08/2011
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