Milano, 21 set. - La relazione tra ascesa economica cinese e commercio internazionale pare ad oggi indissolubile. O, per meglio dire, sembra destinata a perdurare finché Pechino continuerà a portare avanti una strategia di crescita basata sulla stimolazione ipertrofica degli investimenti, a scapito del consumo interno. Il governo centrale si è dimostrato pienamente consapevole dell'importanza di stabilizzare le relazioni commerciali con l'estero e ha investito ingenti risorse per garantire l'apertura dei mercati di esportazione. Prova tangibile di tale impegno è l'attivismo cinese nell'ambito dei negoziati commerciali internazionali. Attivismo che si esplica principalmente su due fronti: da una parte, quello delle trattative condotte a livello planetario secondo una logica multilaterale, dall'altra quello delle negoziazioni bilaterali o comunque coinvolgenti un numero limitato di attori, spesso accomunati dalla vicinanza geografica.
Il principale fautore del primo approccio è senza dubbio l'Organizzazione Mondiale del Commercio (WTO). Nato nel 1995 dalle ceneri del pluridecennale General Agreement of Tariffs and Trade (GATT), il WTO ha accolto tra i suoi membri la Cina nel dicembre 2001, dopo quasi quindici anni di trattative. Per la precisione, si tratta di una riammissione più che di un primo ingresso, dato che il paese nel 1948 aveva già aderito al GATT, per uscirne solo un anno dopo a seguito della rivoluzione maoista. Sul piano quantitativo, non vi è dubbio che l'adesione al WTO sia stata accompagnata da una impennata nel processo di progressiva integrazione della Cina rispetto all'economia mondiale. Secondo i dati della Banca Mondiale, tra il 2000 e il 2008 il volume delle esportazioni cinesi è aumentato di più di cinque volte, mentre quello delle importazioni di oltre tre.
Certo la tendenza a maggiori livelli di globalizzazione economica si era manifestata ben prima e trae la sua spinta originaria dalle riforme varate da Deng alla fine degli anni '70, ma l'ingresso nel WTO ha impresso una forte accelerazione, portando nel 2009 la Cina a detronizzare la Germania come primo esportatore di beni al mondo. D'altra parte, questo tipo di accordi presenta dei problemi non da poco. Il Doha Round, l'ultima serie di negoziati avviata nel 2001, ha incontrato diversi ostacoli (in particolare, per quanto riguarda le liberalizzazioni nel settore agricolo, osteggiate da molti paesi sviluppati) ed è lecito dubitare sulla rilevanza effettiva dei risultati che saranno raggiunti entro la conclusione, annunciata per il 2010 stesso. Una delle principali difficoltà è data dal sistema "un paese - un voto", che, se da un lato garantisce una maggiore parità di condizioni (rispetto, ad esempio, ad istituzioni come il Fondo Monetario Internazionale), dall'altro rallenta inevitabilmente le trattative.
Inoltre, il complesso di norme su cui si reggeva il GATT e su cui ora poggia il WTO ha sì contribuito a indurre il potente processo di globalizzazione economica degli ultimi sessant'anni, ma non per questo può essere considerato una panacea contro ogni tentazione protezionistica. Ad esempio, la contestata possibilità di prendere misure anti-dumping e le cosiddette clausole di salvaguardia (che consentono di proteggere temporaneamente un settore dalla concorrenza estera, se particolarmente violenta) hanno permesso ai paesi membri del WTO di attuare misure di fatto protezioniste, pur mantenendosi nel rispetto delle regole imposte dall'organizzazione. E una delle nazioni più colpite da simili provvedimenti (in particolare, dai rimedi anti-dumping) è stata proprio la Cina, spesso additata come capro espiatorio per giustificare le difficoltà economiche in cui si dibattono i singoli stati.
Le criticità che caratterizzano l'approccio multilaterale hanno negli ultimi anni indotto il Dragone a impegnarsi anche (e, forse, soprattutto) sull'altro fronte: quello delle negoziazioni su base territoriale più ristretta, spesso regionale. Il caso più eclatante è quello dell'ASEAN-China Free Trade Agreement (ACFTA), un accordo di libero scambio tra Pechino e i dieci paesi del Sud-Est Asiatico facenti parte dell'ASEAN, entrato in vigore il 1° gennaio di quest'anno. Simili intese bilaterali sono state raggiunte con Taiwan (solo pochi giorni fa), Singapore e anche con stati affacciati sull'altra sponda del Pacifico, come Cile e Perù. Inoltre, una serie di pronunciamenti da entrambe le parti suggerisce la concreta possibilità che vengano avviate altre trattative, tra cui quelle con la Corea del Sud e l'India.
Uno dei principali svantaggi di questo tipo di negoziati è che le norme previste da ciascun accordo, sommandosi le une alle altre, accrescono notevolmente la complessità del sistema legale in cui le aziende operano, determinando un aumento dei costi di transazione. Il risultato è, secondo la celebre metafora dell'economista Jagdish Bhagwati, un noodle bowl, una matassa inestricabile di cavilli che paradossalmente rischiano di ostacolare l'attività d'impresa. In secondo luogo, alcuni osservatori ritengono che i negoziati bilaterali possano essere d'intralcio per l'avanzamento delle trattative in seno al WTO, le quali, seppur più macchinose, sono potenzialmente più efficaci, nella misura in cui le liberalizzazioni concordate si applicano alla totalità dei paesi membri.
Sia l'approccio multilaterale che quello regionale, dunque, presentano punti forza e svantaggi, il che ha portato Pechino a sondare entrambe le vie, data l'importanza della posta in gioco per il paese. Dopo aver incassato l'ingresso nel WTO, tuttavia, il Dragone sembra aver privilegiato il rafforzamento dei rapporti con le economie asiatiche, dedicando minori energie alla promozione delle trattative a livello mondiale. E il prossimo futuro quali scenari riserverà? Quale strategia verrà seguita dai leader del Partito Comunista per garantire la viabilità degli sbocchi commerciali esteri? E' presumibile che la Cina miri a consolidare l'egemonia economica acquisita nell'Asia Orientale, in modo tale da rinsaldare anche la propria posizione politica nell'area. D'altra parte, il paese avrà interesse a giocare un ruolo di primo piano anche sullo scacchiere globale, non fosse altro che per l'ampiezza dei mercati occidentali: non va dimenticato, infatti, che il principale importatore di beni "Made in China" è ancora l'Unione Europea e il maggior "fornitore" di domanda netta, bene raro e prezioso, rimangono gli Stati Uniti.
di Giovanni Compiani
Giovanni Compiani, laureato in Economia e Scienze Sociali presso l'Università Bocconi dove da agosto 2010 è iscritto al Corso di Laurea Specialistica in Inglese in Economics and Social Sciences. Da agosto a dicembre 2009 è stato studente in scambio presso la Harvard University e dal 28 giugno al 9 luglio 2010 ha seguito la quarta edizione della Summer School TOCHINA a Torino.
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