Amici economisti, è vero ci abbiamo capito poco
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Amici economisti, è vero ci abbiamo capito poco

Amici economisti, è vero ci abbiamo capito poco

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Com'era bello, per gli economisti, il mondo di prima della crisi globale. C'era un obiettivo, la stabilità dei prezzi, e uno strumento per raggiungerlo, il tasso d'interesse, e l'ottenimento del primo portava a una crescita stabile. Erano gli anni della Grande Moderazione. «Avevamo - dice Olivier Blanchard, capo economista del Fondo monetario e uno dei più acclamati macroeconomisti, ammettendo che la sua descrizione è un po' "una caricatura" - un quadro semplice ed elegante».
Peccato che quel quadro, dove la finanza era a mala pena un dettaglio, e si rivelerà invece una delle cause principali di tanti mali, dove la politica fiscale contava poco o nulla, e dove alle spalle della stabilità apparente si gonfiavano gli squilibri, non descrivesse la realtà. «Tutte le crisi economiche più gravi degli ultimi 200 anni - sostiene il premio Nobel Joseph Stiglitz, uno dei più vivaci contestatori della prima ora di quel quadro idilliaco - sono state legate a bolle del credito e crisi finanziarie. Non includere la finanza nei modelli macroeconomici è stato uno dei fallimenti più clamorosi. I nostri modelli semplicemente non ritraevano quello che stava succedendo».
Quel mondo di certezze è oggi un mondo di dubbi, di domande più che di risposte. Così Blanchard ha chiamato due vecchi amici, lo stesso Joe Stiglitz, e l'altro Nobel Mike Spence, che ha dedicato i suoi sforzi più recenti a individuare le radici profonde della crescita, e insieme hanno convocato a Washington, per un consulto di due giorni sullo stato della macroeconomia, oltre un centinaio delle menti più brillanti della professione, compresi altri due Nobel, il decano Bob Solow e George Akerlof. Paul Krugman, impossibilitato a partecipare, ha mandato la sua benedizione, come si usa di questi tempi, via blog. I presenti abbracciavano uno spettro di vedute che va dall'ultraortodossia dell'ex capo economista della Banca centrale europea, Otmar Issing, all'iconoclastia di Stiglitz.
È significativo però che l'iniziativa su sei grandi temi sia venuta da quello che è stato il guardiano supremo della fede, ma anche uno dei primi a recitare il mea culpa, il Fondo monetario. Nel testo che accompagnava l'invito, il capo economista dell'Fmi parla di «riscrivere lo spartito della macroeconomia».
«La crisi dell'economia globale - ha detto il direttore dell'Fmi, Dominique Strauss-Kahn, aprendo i lavori - è anche la crisi degli economisti». Blanchard ha riconosciuto che siamo entrati «in un nuovo mondo», di molti obiettivi e di molti strumenti, alcuni dei quali non sappiamo ancora bene come usare, e alcuni che sono a rischio di abusi da parte dei politici, come i controlli sui movimenti di capitale.
Olivier Blanchard è attentissimo a precisare che «qui non si tratta di costruire un Washington Consensus 2», riferendosi a quell'insieme di principi della politica economica in voga negli anni 90 e poi finito sotto attacco da ogni parte (John Williamson, che lo ha formulato, era fra i partecipanti all'incontro). La nuova parola d'ordine è «pragmatismo». È così del resto che si è mossa la Cina, ha spiegato Andrew Sheng, della Tsinghua University, un modello difficile da replicare, e che ora a sua volta comincia a mostrare qualche pecca, ma senza dubbio di successo. Del resto, come ha detto l'economista di Harvard Dani Rodrik, il prossimo futuro dei paesi industriali è fatto di crescita lenta e smaltimento del debito pubblico, mentre il grosso della crescita mondiale verrà dai paesi emergenti. Il rischio, però, ha sottolineato Rodrik, è che a governare questo processo non sia più il G-8, e neppure il G-20, ma un G-0, in un mondo privo di leadership. Al nuovo spartito di Blanchard mancherebbe un direttore d'orchestra.
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pSul Sole 24 Ore dell'8 febbraio (sopra) Raghuram Rajan denuncia l'incapacità degli economisti di prevedere la crisi e sul giornale del 10 febbraio (sotto) il mea culpa dell'Fmi che non ha compreso i segnali dei mercati internazionali.
Politica monetaria
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Nell'età dell'oro dei banchieri centrali, si pensava che «la politica monetaria avesse risolto i suoi problemi e avesse contribuito a risolverne altri. Oggi sappiamo che non è così. Anzi la politica monetaria è accusata di colpe che non ha», dice Adam Posen, del Peterson Institute, membro del comitato di politica monetaria della Bank of England. Ricorda Blanchard che all'unico obiettivo della bassa inflazione si arrivava con il solo strumento dei tassi d'interesse e questo, «per divina coincidenza», doveva portare a una crescita stabile. Quanto alla finanza, la sua stabilità era affidata a strumenti macroprudenziali e a istituzioni diverse dalle banche centrali. La separazione era totale.
Ma il mondo è più complesso: l'instabilità finanziaria interferisce con la stabilità dei prezzi, ricorda Stglitz, e omettere la prima è stato un grave errore. I modelli macro hanno bisogno di fondamenta micro: i mercati non sono sempre efficienti e quasi mai stabili. Quel che conta per la popolazione non sono i prezzi stabili, ma la crescita sostenibile. L'ossessione dell'inflation targeting, sostiene Otmar Issing, ha portato al crescente rischio di bolle, che i banchieri centrali erano chiamati a trascurare. La sfida, ammette Issing, è come far interagire la politica monetaria e quella macroprudenziale. Per lui, la soluzione è semplice: basta fare come la Bce, e non dimenticare le quantità di moneta e credito. Se sono fuori controllo, è lì che nascono le bolle. Per tutti, ortodossi e no, resta un punto interrogativo sull'efficacia delle politiche di allentamento quantitativo, adottate in Usa e Gran Bretagna.
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Politica fiscale



Nel vecchio mondo pre-crisi la politica fiscale contava assai poco. Quando i tassi sono scesi fino allo zero, in piena recessione globale, molti paesi hanno deciso che ci voleva uno stimolo fiscale per arginare la caduta dell'economia e farla ripartire. «La politica fiscale serve - dice David Romer, dell'università di Berkeley - basta pensare che uno degli stimoli più grandi è stato quello applicato dalla Cina».
Gli economisti sono divisi sugli effetti di queste manovre di breve termine: il dibattito sul moltiplicatore è aperto, come ricorda il "grande vecchio", Bob Solow. Poi ci sono gli effetti di lungo periodo: l'esplosione del debito pubblico preoccupa governi, mercati ed economisti. Lo dimostra la crisi del debito sovrano che attanaglia l'area euro e quella che potrebbe colpire gli Usa. L'Fmi stima che entro il 2015 il debito dei paesi avanzati sarà al 110% del Pil, per effetto della recessione più che dei piani di stimolo. Urge pensare a piani di rientro. Una discussione, che secondo Solow, sta generando oggi «molte idee stupide negli Stati Uniti, dentro e fuori dal Congresso». L'economista del Mit ritiene anche che gli stimoli abbiano battuto la strada sbagliata, quella della costruzione di infrastrutture, «progetti difficili da far partire e difficili da accelerare». Per un beneficio più immediato sull'occupazione forse sarebbe stato meglio puntare sui servizi. Il premio Nobel è convinto anche che, in un mondo di commerci aperti e flussi di capitale, prima o poi bisognerà arrivare a qualche coordinamento internazionale della politica fiscale. Un concetto che di certo i governi faticheranno a digerire.
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Il disastro della finanza globale degli ultimi anni e le ripercussioni sull'economia hanno prodotto un ripensamento sul suo ruolo, sulle sue dimensioni, e su come vada regolamentata e controllata. «Dobbiamo assicurarci - dice il direttore dell'Fmi, Dominique Strauss-Kahn - che il settore finanziario sia al servizio dell'economia reale». Più capitale, meno debito, autorità di vigilanza che non siano "catturate" dagli operatori del settore sono gli ingredienti della ricetta proposta finora a livello internazionale, e sospinta in primis dal Financial Stability Board.
L'uso di denari pubblici per salvare le banche ha destato enormi polemiche. «Non è quello il problema - dice Adair Turner, capo dell'Fsa, che controlla la finanza in Gran Bretagna - in molti paesi i governi ci guadagneranno. Il problema è la fornitura di capitali all'economia: prima era eccessiva, ora insufficiente». Per Turner, che ha messo in dubbio il "valore sociale" di molte attività della finanza, c'è anche il rischio di una reazione eccessiva, mentre Jacob Frenkel, presidente di J.P. Morgan International, sposa una tesi comune fra le banche: il costo delle nuove regole sarà pagato dagli utenti finali. E che alcune di queste, come quelle sulla liquidità, non siano convicenti. E che l'eccesso di regole finirà per spingere l'attività verso aree che le eludono, "il sistema bancario ombra". La crisi ha rivelato un altro volto del sistema bancario internazionale, dice Hun Song Shin, l'economista coreano di Princeton: questo vive di dollari e ciò fa della Federal Reserve, di fatto, la banca centrale del mondo.
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Mercato dei capitali



In un primo tempo, la crisi ha provocato un blocco dei flussi di capitale verso i paesi emergenti, nel dopo-crisi sono ripresi impetuosi, fino a raggiungere i mille miliardi di dollari. Crescono i volumi e aumenta la volatilità, osserva Rakesh Mohan, di Yale. Al forte apprezzamento del cambio e alla perdita di competività, qualcuno, come la Cina e altri paesi asiatici, ha risposto con interventi per tener bassa la moneta e l'accumulo di riserve, qualcun altro, come Brasile e Corea, introducendo controlli e tasse sui capitali in entrata. È la "guerra delle valute".
C'è chi accusa la politica monetaria della Federal Reserve di aver inondato il mondo di liquidità, che poi fluisce verso gli emergenti. Non è così, secondo Ricardo Caballero, del Mit: dopo le mosse della Fed c'è stato semmai un rimbalzo di Wall Street e un ritorno di capitali verso gli Usa. Arminio Fraga, ex governatore della Banca centrale brasiliana, fondatore della società di hedge fund Gavea, è convinto che i governi confidino troppo nei controlli sui movimenti di capitale, la cui efficacia è limitata, e dovrebbero curare i fondamentali: in Brasile, uno dei più importanti destinatari di capitali esteri, questo significa una stretta alla politica fiscale che faccia scendere i tassi, oggi altissimi e attraenti per l'hot money. La Cina deve sapere che un cambio fisso e sottovalutato è «una macchina per creare bolle speculative». A livello internazionale, sostiene Fraga, un ampio uso dei controlli di capitale è un danno per l'economia mondiale, un «gioco protezionista». Un gioco che ha bisogno di regole condivise.
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Strategie di crescita



Alla fine, quel che conta è la crescita. E questa, nell'economia post-crisi, verrà soprattutto dagli emergenti e dal loro processo di convergenza verso i livelli di vita dei paesi avanzati. Per ottenerla, bisogna fare «le cose giuste», dice Dani Rodrik di Harvard, soprattutto spostare risorse verso i settori a produttività più alta. Purtroppo, gli afflussi di capitale eccessivi e il boom dei prezzi delle materie prime spingono nella direzione opposta, tranne che in Asia: sono un vantaggio per questi paesi nel breve periodo, ma un ostacolo al loro sviluppo di lungo termine. Bisogna riscoprire, secondo Rodrik, anche la politica industriale. Molti guardano al modello cinese. La Cina, dice Andrew Sheng, non ha inventato niente: il sistema della catena produttiva globale nasce in Giappone, poi viene esportato alle tigri asiatiche e ora in Cina. Ma la vera carta dell'economia cinese e dei rapporti Stato/mercato è la grande adattabilità, anche della macchina statale. Orchestrazione, la definisce Sheng, e continua messa a punto del modello, anche a livello locale. Altro che economia centralizzata e pianificata come ai vecchi tempi. Concorda il premio Nobel Michael Spence, che ha presieduto la Commissione per la crescita della Banca mondiale. «Sono finiti i tempi delle liste delle cose da fare e da non fare - dice Spence - la lezione dei paesi che crescono di più (ed entro dieci anni gli emergenti saranno più del 50% del pil mondiale) è il pragmatismo». Ma le vere sfide di lungo termine per la crescita, dall'ambiente all'acqua, all'energia, sono sfide globali e richiedono una governance globale che per ora non c'è.
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Sistema monetario



Quando una discussione sul futuro del sistema monetario internazionale è aperta dal governatore della Banca centrale d'Islanda, uno dei paesi investiti più violentemente dalla crisi (non senza colpe), è il segnale che il sistema si è rotto e va aggiustato. Il sintomo più grave sono gli squilibri globali delle partite correnti, argomento che ha tenuto banco agli ultimi G-20. C'è da chiedersi se i paesi debbano essere liberi di accumulare i surplus (o i deficit) che vogliono, senza considerare l'impatto delle proprie azioni. Dato che i due terzi dei surplus globali (se si escludono quelli dei paesi esportatori di petrolio) vanno attribuiti alla Cina, come osserva Olivier Jeanne, della Johns Hopkins, è chiaro che su Pechino si puntano i riflettori, e le accuse. Dice Jeanne: «Manipolando il cambio e usando controlli sui capitali si possono aggirare le regole internazionali, rigide sul commercio di beni, inesistenti sulle attività finanziarie». Per l'economista, Pechino dovrebbe fissare scadenze per internazionalizzare lo yuan e liberalizzare i movimenti di capitale.
Da Charles Collyns, sottosegretario al Tesoro Usa, il consesso degli economisti ha riascoltato il verbo di Washington: lo yuan è sottovalutato e in questo sistema monetario ibrido, dove qualcuno lascia fluttuare il cambio e qualcun altro lo gestisce con mano pesante, sono i primi a rimetterci. Il sistema monetario non ha un meccanismo per convincere la Cina a spostare il suo modello di crescita dall'export alla domanda interna, e non solo a parole. Washington finora non c'è riuscita, e il G-20 neanche.
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SCHEDE A CURA DI A.Me.

10/03/2011
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