La lunga storia del colosso General Electric, e come è finito in guai seri

Ha scritto un pezzo di storia dell'energia e dell'innovazione, una delle aziende più potenti al mondo, ma oggi è un'azienda disastrata. Completamente da risanare. Come si è arrivati a questo difficile 2018, e con un futuro incerto

La lunga storia del colosso General Electric, e come è finito in guai seri
(Afp)
 General Electric

C'era una volta General Electric, l'azienda che incarna il sogno americano: più profitti e più benessere per tutti. GE è stata la società più grande e più ammirata d'America, il produttore di turbine elettriche, il venditore di assicurazioni, la fucina del miglior management Usa. L'azienda ha un secolo e passa di successi alle spalle, ma nel giro di pochi anni è diventata l'ombra di sè stessa: un'azienda in crisi, sommersa da una valanga di debiti, senza più un'identità, che non produce più profitti, nè dividendi, il cui valore di mercato si è ridotto a una decimo di quello che aveva meno di 20 anni fa.

Insomma un'azienda disastrata, completamente da risanare. Questa è la sua storia, il racconto di come generazioni di manager, che pensavano di poter aggiustare qualsiasi azienda in qualsiasi settore, si sono imbattuti in un problema che non sono riusciti a risolvere. Il campione di questi manager si chiamava Jack Welch e ha guidato GE per almeno due decenni, dal 1981 al 2001. Welch è il 'Re dei manager', ha creato più valore di chiunque nella storia, portando GE in testa alle classifiche delle società più capitalizzate del mondo: da 12 miliardi di dollari il suo valore di mercato è passato a oltre 360 miliardi, un'impennata del 4.000%: mitica.

GE è una conglomerata, cioè produce di tutto, dalle lampadine, alle assicurazioni, ai programmi tv, ai motori dei jet, agli ascensori, alle turbine elettriche, alle trivelle petrolifere, ma non è tanto quello che produce che conta, quanto la fede in sè stessi dei suoi manager. Un dirigente General Electric, per decenni, ha creduto fermamente di poter entrare in qualsiasi settore non per gestirlo ma per dominarlo. GE, nei suoi 125 anni di storia, ha saputo incarnare il meglio del made in Usa, mettendo insieme efficienza, potenza e affidabilità. Il gruppo ha attraversato il secolo americano come una portaerei inaffondabile, capace di navigare abilmente nelle secche della depressione, della guerra mondiale e della globalizzazione.

Anche quando le cose volgevano peggio, la fede di GE nella sua storia, nelle sue prodezze, nelle sue mitiche virtù la faceva sentire invincibile. Eppure, anche l'inaffondabile GE, a un certo punto, ha cominciato a imbarcare acqua e velocemente ha iniziato ad affondare. Il Wall Street Journal ha descritto in un lungo articolo la storia di questo naufragio. 

UN SECOLO E UN QUARTO DI STORIA

GE nasce dall'ingegno di Thomas Alva Edison e dall'audacia di John Pierpont Morgan, il più grande inventore e il più grande banchiere Usa. La sua storia è quella delle dinamo che hanno generato l'elettricità, dei fili che l'hanno trasportata e delle lampadine che l'hanno riscaldata, generando la luce elettrica. Le aziende del gruppo hanno collegato i quartieri coi tram e le città con le locomotive, hanno riempito le cucine con forni e tostapane, i salotti con radio e tv, i bagni coi ferri arricciacapelli e gli spazzolini da denti e le lavanderie con lavatrici e asciugatrici. Più di recente la storia di GE coincide con quella del suo mitico capo, Jack Welch, il più giovane ceo della storia dell'imprenditoria Usa, che nel 1981, quando esordisce alla guida di GE, è un giovane ingegnere chimico di 44 anni.

Per 20 anni Welch dirige la conglomerata con pugno di ferro, ossessionato dai target, il raggiungimento degli obiettivi, i risultati economici e finanziari. Il suo slogan preferito è: "Raggiungilo, chiudilo e vendilo", inteso come il 'deal', l'affare, che poi è anche il target, l'obiettivo prefissato, sintetizzabile con un'unica meta: diventare leader di mercato. Al suo apice, nell'agosto 2000, GE è un colosso di quasi 500.000 addetti, ha una capitalizzazione di mercato di 600 miliardi di dollari, una diffusione azionaria senza pari, un rendimento azionario crescente e garantito, è un'azienda darwinista, nel senso che elimina chiunque non è in grado di competere, di starle al passo.

GE Capital, il suo braccio finanziario, la vera invenzione di Welch, genera più della metà dei suoi profitti, compete con le più grandi banche del paese, gareggia con Wall Street: con la finanza Ge si trasforma, cambia pelle, impara a fare più utili che con le fabbriche. L'uscita di scena di Welch coincide con l'attacco terroristico alla Torri gemelle: un cambiamento epocale.

Anche per GE quegli anni coincidono con un passaggio d'epoca. Il suo sostituto, Jeff Immelt, eredita un'azienda i cui utili salgono a colpi del 50% l'anno, crescono a vista d'occhio, ma a breve termine, di trimestre in trimestre, e provengono quasi tutti, almeno per il 50%, dalla finanza, non si consolidano lentamente nel tempo come succedeva nell'industria. La crisi del 2008 coglie GE di sorpresa, la finanza rivela la sua natura ambigua, rischiosa e presenta il conto. Immelt è costretto a chiedere aiuto al governo per evitare la bancarotta, la Fed manda i suoi ispettori a GE Capital e mette bocca sugli investimenti del gruppo, anche quelli industriali. Immelt è un omone di un metro e ottanta, somiglia un pò a Bill Clinton, è un leader, un venditore nato. Per lui dover trattare con gli ispettori della Fed, il cui capo è una donna, è uno shock: "Non ho intenzione di farmi dire come devo gestire la mia compagnia". 

Ma la realtà è che il modello Welch, quel misto di finanza e industria capace di generare montagne di utili e di finanziare gli investimenti con i prodotti della banca, non funziona più. Il giocattolo si è rotto. L'idea di risolvere tutto vendendo GE Capital non è fattibile, perché la fattura fiscale è troppo alta. Il modello dell'azionariato diffuso, il punto di forza di GE, scricchiola perché ci sono meno soldi da distribuire in dividendi. Immelt, detto 'Big Jeff' e il suo cfo Bornstein, la mente finanziaria del gruppo, detto 'Little Jeff', si scervellano per trovare delle soluzioni, ma devono reinventare GE. E non è uno scherzo.
 

L'AFFARE ALSTOM

Per oltre 5 anni Immelt e Bornstein ci provano a trovare la quadratura del cerchio ma senza grandi risultati finchè, nel 2014, non arriva un'occasione. Immelt è in viaggio per la Russia col suo jet privato e fa tappa a Parigi per cena. Patrick Kron, ceo di Alstom, la General Electric francese, è in cerca di un Cavaliere Bianco che salvi la sua azienda. Alstom produce treni, turbine, generatori di energia elettrica ed è a secco di liquidità. Alla cena di Parigi c'è anche lui, parla con Immelt, che è interessato a comprare. Si tratta sul prezzo, che è molto caro. Immelt ha una fiducia cieca nel management di GE, mette al lavoro una squadra per studiare il dossier Alstom. I tecnici conoscono bene Alstom: un'azienda con pochi soldi e troppi dipendenti, tra l'altro difficilmente licenziabili, per via delle forti tutele previste dalla legge francese. Immelt ha un'altra visione: per lui Alstom è un'azienda in crisi, scalabile e che rappresenta l'occasione di disfarsi di GE Capital, tornando a focalizzarsi sull'industria. Inoltre Immelt ha una visione solare del futuro e una fiducia sconfinata nelle capacità dei suoi manager di risolvere i problemi di Alstom. I team delle due aziende si incontrano a Chicago e si stringono la mano, il prezzo è alto, 34 euro ad azione, 17 miliardi di dollari, la cifra più alta mai spesa da GE per un'acquisizione.
 

ALSTOM DIVENTA UNA PALLA AL PIEDE

Il piano che Immelt presenta per l'integrazione delle due società si chiama 'GE pivot'. Lui s'immagina di illuminare gli angoli più bui della Terra. Per il futuro è convinto che gli ordini di turbine a gas andranno a ruba e pensa che arriveranno commesse per la costruzione di centrali elettriche in Medio Oriente, Africa e Asia meridionale. Per il presente l'obiettivo è spremere più profitti dalle vecchie centrali elettriche a carbone di Alstom operanti in Europa e Asia. Si tratta di progetti campati in aria, fumosi, sbagliati. La domanda globale di gas ed elettricità non è per niente rosea. Molti dentro GE sperano che ci sia ancora tempo per ritirarsi dall'offerta, ma Immelt non è d'accordo. 

 

L'USCITA DAL CAPITAL GE

Nella primavera del 2015 il capo di GE Capital, Keith Sherin, entra nell'ufficio di un collega per condividere con lui un segreto. "Stiamo per de-SIFI", gli biascica all'orecchio. Quel miagolio nel gergo normativo significa solo una cosa: stiamo vendendo GE Capital. Il sogno di Immelt prende forma: arriva Alstom e parte GE Capital, la settima banca del paese, un "istituto finanziario di importanza sistemica". Per questo la Fed lo salva ma a un prezzo salato, regolandola rigidamente, controllandone i flussi, che poi sono la linfa vitale degli investimenti industriali di GE. Immelt non lo sopporta, smantella e ridimensiona GE Capital, che comunque mantiene dimensioni ingombranti.

Per uscire dalla tutela della Fed, GE deve vendere 216 miliardi di dollari di attività finanziarie (immobili, treni, mutui, prestiti), che andranno ad aggiungersi ai 310 miliardi di dollari di asset già svenduti. Ecco come si sgonfia il patrimonio di GE: andando a coprire le perdite di GE Capital il motore finanziario costruito da Welch, che adesso pesa solo per il 10% sugli utili del gruppo. Immelt ha scelto Sherin per gestire questa operazione. La loro idea è quella di usare i proventi della vendita di GE Capital per rafforzare il comparto industria e per riacquistare azioni GE, facendole risalire in Borsa. Il piano è annunciato nell'aprile 2015.
 

IL CRAC ARRIVA DAL SETTORE ENERGIA

Nell'estate del 2015 il capo del settore Energia di GE, Steve Bolze si affretta a completare l'integrazione con Alstom. Bolze, 52 anni, mascella quadrata da rugbista, il tipico rappresentante del 'machismò Usa, presenta al management un quadro molto ottimista sul futuro, prevede una crescita annuale delle vendite di energia del 5%. Tutti sono scettici, ma non Immelt, il quale sente quelle cifre a una riunione del cda, sorride e fa: "Grande, andiamo avanti". Non è da lui, Immelt è un tipo ruvido, non particolarmente ottimista, la sua reazione lascia sconcertati molti top manager.

Dopo la chiusura dell'accordo di Alstom, nel novembre 2015, Immelt spinge per aumentare le quote di mercato del settore energia, anche a costo di concludere affari meno redditizi. Gran parte dei proventi della vendita di GE Capital vengono bruciati in questo sforzo. Per tutto il 2016 GE vende turbine a prezzi stracciati e per praticare questi sconti e agevolare i clienti, Bolze adotta una contabilità aggressiva, arriva perfino a vendere i crediti di GE Energia a GE Capital per generare flussi di cassa a breve, rinegoziando i contratti a tutto vantaggio dei clienti. Tutto ciò inevitabilmente lima i profitti del settore energia, mentre l'attesa crescita della domanda latita.

 

TRIAN ENTRA IN GE

General Electric comincia ad aver bisogno di capitali freschi e a fornirglieli è un activist investor, Nelson Peltz, il cui Trian Fund Management rivela di aver segretamente acquistato azioni di GE, accumulando una partecipazione da 2,5 miliardi di dollari, che lo trasforma in uno dei 10 maggiori azionisti della compagnia. L'ingresso degli activist investor non è mai una buona notizia per i manager, perché le loro pressioni per far cassa a breve, inevitabilmente confliggono con le strategie di investimento a medio e lungo termine. Trian non chiede la testa di Immelt, non vuole neppure un posto in cda, i cui 18 membri sono in gran parte fedeli al ceo.

Prelz comunque parla con Immelt e Bornstein. Il capo di Trian ha fama di essere un azionista killer ma con GE ci va cauto, a lui l'azienda piace e non è contro l'accordo per Alstom, non vuole più buyback azionari, non detta la linea ma vuole che il prezzo delle azioni, attualmente a 25 dollari, salga a 40. Peltz affida il dossier GE al cognato Ed Garden, il quale se ne sta buono per qualche mese, poi, siccome gli obiettivi non vengono raggiunti, scalpita e nell'autunno 2016 minaccia di chiedere un posto nel cda. Si cerca un compromesso, GE accetta di raddoppiare gli obiettivi di riduzione dei costi, intanto dentro l'azienda si incomincia a pensare al successore di Immelt. Bornestein e Bolze si candidano.
 

IL PASSO FALSO A SARASOTA

Nel novembre 2016 Donald Trump s'insedia alla Casa Bianca. La sua agenda prevede guerre commerciali e deregolamentazione finanziaria, tutte cose che Immelt non gradisce. Ai primi del 2017 GE prosegue ad acquistare azioni proprie e vuole comprare la rivale aerospaziale Rockwell Collins per oltre 15 miliardi. GE è ancora un colosso, la sua fama non è incrinata anche se è scossa. Tutto nel gruppo adesso ruota intorno a GE Energia, i cui conti però risentono negativamente delle rinegoziazioni sui contratti di servizio. Il titolo GE perde l'11%, in una fase in cui l'indice S&P guadagna il 6%.

S'inizia a temere per il target utili 2018 che prevede una crescita di due dollari ad azione. Immelt a maggio 2017 si presenta a un convegno annuale a Sarasota, in Florida, che riunisce i grandi produttori di energia americani. è lui la star, GE è ancora la prima conglomerata Usa, una potenza nel settore energia. Immelt di solito è bravo a intrattenere il pubblico ma stavolta non dà il meglio di sè. Difende debolmente il target sugli utili, è preoccupato per i prezzi in calo del gas, le sue titubanze trapelano, i presenti al convegno incominciano a chiedergli se l'affare Alstom va bene, se tutto è a posto, in sala cresce il nervosismo. Sarasota rappresenta un passo falso per Immelt, il suo intervento non convince, perde la fiducia degli investitori, in particolare di Trian.

 

IL DOPO IMMELT

Dopo Sarasota inizia anche il dopo-Immelt. Il ceo è da 16 anni alla guida di Ge, la sua successione è nell'aria, ma a quel punto diventa ufficiale. Come nuovo ceo il cda vede in pole position 4 manager: Bornstein, Bolze, John Flannery, il capo della sanità e Lorenzo Simonelli, il capo del business del petrolio e del gas. Il più gettonato è Flannery, un veterano, con 30 anni di militanza GE alle spalle: non ha il carisma di Welch e Immelt, è calvo, miope, è più un contabile che uno stratega, viene dal settore finanziario, ma agli investitori, come Trian, piace chi bada ai numeri, alle cifre, al fatturato, alla produzione. Il cda alla fine sceglie proprio lui per succedere a Immelt.
 

LA LUNA DI MIELE CON FLANNERY DURA POCO
 

Flannery è visto come l'anti-Immelt, il nuovo Welch. Ma la luna di miele dura poco. Lui si mostra titubante. A luglio avrebbe dovuto annunciare i suoi nuovi obiettivi, ma prende tempo e rinvia tutto a novembre. Si rende conto che la situazione di GE Energia è molto peggiore di quello che pensava. I profitti non ci sono, la divisione si è preparata per la crescita di un mercato che sta crollando. I prezzi del gas e del petrolio sul mercato sono ai minimi. Il motivo? C'è un eccesso di fornitura, L'Arabia Saudita gonfia l'offerta, pompa quantità enormi di idrocarburi per battere la concorrenza dello shale oil Usa e questo abbatte i prezzi. è un evento imprevisto, le previsioni di GE erano sbagliate.

Aveva puntato su un mercato in crescita e si è ingrandita nel momento sbagliato. Ora è un pò tardi per correre ai ripari. Nel frattempo Bolze se ne andato, Bornestein si appresta a farlo, in compenso Ed Gardian di Trian entra nel cda. Il titolo GE perde un altro 4%, attestandosi poco sopra 23 dollari. Flannery è dubbioso, troppo prudente, insicuro, riunisce in continuazione il cda ma di decisioni importanti ne prende poche. A ottobre esce la trimestrale, la liquidità a fine 2018 è prevista solo di 7 miliardi di dollari, contro i 12 inizialmente previsti, a causa delle perdite della divisione energia.

A novembre Flannery deve presentare i suoi obiettivi e incolpa Immelt di aver pagato troppi dividendi. Col suo linguaggio asciutto, da contabile Flannery fa sapere ci vorrano anni per sistemare alcune delle attività della società e predisporre un futuro per i suoi tre mercati chiave: energia, aviazione e assistenza sanitaria, mentre pianifica di abbandonare le divisioni più piccole, come i trasporti e l'illuminazione. Di fatto prefigura una ritirata disastrosa: una Caporetto. Il titolo crolla sotto i 20 dollari, i conti vanno di male in peggio.

 Flannery allora pensa di sciogliere la conglomerata, scorportando alcune divisioni, ma ormai è chiaro a tutti che non è l'uomo giusto per fare il salvatore di GE: manca di fiducia in sè stesso, non regge l'alta pressione, ogni volta che apre bocca il titolo della compagnia sprofonda. Le azioni GE strapiombano a 18 dollari. Intanto si avvicina la data del nuovo meeting annuale di Saratoga: Flannery sa che per lui è una prova del fuoco, si prepara come per un'elezione presidenziale, un pool di esperti stila un elenco di domande, con accanto le relative risposte.

Tuttavia lui sa che la vera risposta è quella che non deve trapelare: ci vuole tempo, forse anni per aggiustare le cose nel settore energia. A Saratoga, messo alle strette, lui cade nella stessa trappola di Immelt, si rifiuta di rilasciare commenti sui divendi per il 2019. o meglio, dà una risposta da esperto di finanza, dice cose sensate, ma non è quello che la gente vuole sentire dal lui: "Quello che volete non è nel mio stle darvelo, volete che io sia più veloce. Invece io gestisco in un senso più ampio". Dopo le sue parole il titolo perde un altro 7%. La Caporetto si va trasformando in una Waterloo. A marzo per la prima volta nella sua storia GE non paga bonus cash ai suoi top manager.
 

LO SCORPORO DI GE

A giugno del 2018, dopo 125 di storia, General Electric viene scaricata dall'indice Dow Jones. L'azienda che ha creato il listino azionario più importante di Wall Street ne viene esclusa, sostituita da Waltreen Boots Alliance, una catena farmaceutica. Non è solo un duro colpo, una perdita di status, è la fine di un'epoca. Una settimana dopo il 'Re spodestatò è costretto a mostrarsi nudo: Flannery annuncio lo scorporo della General Electric, un piano a cui lavorano squadre di banchieri e di consulenti e che di fatto segna la fine della conglomerata. Flannery separa la sanità, la divisione che genera il 30% dei profitti del gruppo, dal resto del gruppo, e annuncia la vendita della partecipazione di GE in Baker Hughes, il gioiello che fornisce servizi e attrezzature ai big del petrolio.

L'obiettivo è quello di ridurre i debiti, che ora ammontano a 77 miliardi di dollari su un fatturato complessivo di 122 miliardi. A margine dell'annuncio del piano, GE fa anche sapere che Flannery sarà affiancato da Larry Culp, nominato 'lead director', una sorta di tutore, il fiduciario degli investitori, Trian in testa.

 

UN OUTSIDER ALLA GUIDA DEL GRUPPO
 

Culp prende in mano le redini dell'azienda, fa le pulci a Flannery, arriva al punto di accusarlo di incompetenza. è anche un outsider, proviene dalla Danaher. A ottobre prende il posto di Flannery, è il primo ceo in oltre 125 anni di storia a non provenire dall'interno del gruppo: un altro segno dei tempi. Culp è diventato manager della Danaher a soli 37 anni riuscendo ad innestare un circolo virtuoso: comprare aziende, aumentare i profitti e ricompensare gli azionisti. Quando è diventato ceo, la sua azienda fatturava 4 miliardi e 14 anni dopo, è salita 20 miliardi, una magia degna di Jack Welch, anche se applicata a un'impresa molto più piccola.

Adesso è chiamato a ripetere il miracolo, anche se le difficoltà nel frattempo seno aumentate. Prima dell'uscita di Flannenry un'altra tegola si è abbattuta su GE: la nuovissima linea di turbine a gas, quella che avrebbe dovuto fare concorrenza alla rivale Siemens, è difettosa. Exelon, una grande utility texana ha dovuto chiudere due centrali elettriche per farla riparare. Almeno una dozzina di altri clienti rischiano di dover fare altrettanto. Ma non basta, GE dovrà farsi carico di almeno 20 miliardi di svalutazioni, tra cui quelle legate agli asset di Alstom.

E poi anche i magistrati Usa hanno iniziato a indagare sulle attività del gruppo, dopo le denunce degli azionisti che si sono sentiti defraudati. In mezzo alla tempesta, Culp si mette al lavoro, ma parte male: in un'intervista tv rivela che, secondo lui, la crisi del settore energetico non ha toccato il fondo e poi non dice gli obiettivi finanziari del gruppo. A fine ottobre di quest'anno il dividendo trimestrale viene ridotto a un cent ad azione: una miseria. A novembre il titolo di GE scende sotto i 7 dollari per la prima volta dalla crisi finanziaria. La portaerei General Electric ora è stimata meno di 60 miliardi, un decimo di quello che valeva ai tempi di Welch.

Non è ancora affondata, ma quasi, il naufragio è annunciato. "Sono terribilmente deluso - ha di recente dichiarato il vecchio Welch, 83enne in pensione - mi aspettavo molto di più". Poi, senza crederci troppo, si augura che Culp possa "costruire una nuova GE". L'idea che un outsider guidi la sua GE, ex fucina di eccellenza del management a livello mondiale, deve sembrargli un'eresia, ma su questo non si pronuncia.

Nel frattempo, pochi giorni fa, Culp assesta un nuovo colpo all'autostima del parco dirigenti e arruola nel cda Paula Reynolds, ex ceo di Duke Energy ed ex top manager del colosso assicurativo Aig, affidandole GE Energia. Reynolds ha le stesse qualità che un tempo erano monopolio dei manager GE: è duttile, può guidare indifferentemente il settore energia e quello assicurativo, i due punti deboli di GE, solo che è non un executive targato General Electric, viene da fuori, è un altro outsider e il suo compito è quello di aiutare Culp a non fare passi falsi e a risanare GE. Missione difficile, anzi, al momento, una 'mission impossible'.

 



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