Ci sono migranti che devono la loro vita ai giubbotti di salvataggio e altri che grazie a quell’indumento sono riusciti a trovare lavoro, a mangiare e a costruirsi una carriera. Due anni fa oltre 850 mila persone arrivarono via mare sulle coste della Grecia e di questi circa 500 mila approdarono a Lesbo. oltre a fronteggiare l’emergenza migranti, la Grecia i ritrovò con un altro problema collaterale tra le mani: cosa fare delle centinaia di migliaia di giubbotti di salvataggio abbandonati sulle spiagge?
Dai giubbotti alle borse solidali
Una soluzione è arrivata dall’Olanda. E più precisamente dalla Makers Unite, un’impresa attiva nel sociale che si occupa della riconversione di rifiuti e che dà lavoro ai più svantaggiati. Appena gli organizzatori sono venuti a conoscenza del problema hanno deciso di prendere cinquemila di questi giubbotti, portarli ad Amsterdam e affidarli alle sapienti mani dei sarti e degli operai che lavorano alla Makers Unite per farne delle borse.
Il progetto fa parte di un programma della durata di sei settimane che lo scorso anno ha coinvolto i migranti che vivono in Olanda nella fabbricazione e vendita di questi prodotti, in modo da dare loro un’occupazione e un talento. Le borse costano intorno ai 50 euro e la Makers Unite vende circa 100-200 prodotti ogni mese, perlopiù attraverso il sito web. Gli ordini arrivano soprattutto dall’Olanda, dal Regno Unito e dagli Stati Uniti.
Una seconda chance per le persone e per gli oggetti
“Quello che vogliamo fare è offrire una seconda chance: sia alle persone che ai rifiuti”, ha spiegato al Guardian Thami Schweichler, direttore e co-fondatore di Makers Unite. L’auspicio, inoltre, è che “queste borse arancioni e nere possano aumentare la consapevolezza tra le persone riguardo il dramma dei migranti che fuggono dai loro Paesi attraverso il mar Mediterraneo e che, allo stesso tempo, possa aiutare i rifugiati a crearsi un futuro”.
Come MU sta aiutando i migranti
Un sarto della Makers Unite riceve 150 euro al mese per 8 ore di lavoro a settimana, in aggiunta a benefit di disoccupazione. Non è molto, ma rappresenta un punto di inizio. Finora, infatti, Makers Unite ha trovato un lavoro retribuito a circa il 10% dei partecipanti al programma. Altri sono stati inseriti in tirocini o stage o in corsi di formazione che li hanno atta ad aprire una loro attività.
Dal dolore al riscatto
“Quando lavoravo pensavo alla persona che aveva indossato quel giubbotto. Cosa gli sarà successo?” Si chiede Ramzi Aloker, anch’egli arrivato in Grecia su un barcone: “Ricordo il mare profondo ai piedi delle montagne greche”. Oggi Aloker, 46, cuce custodie per portatili e borse per il brand olandese Suitsupply.
Per lui e per gli altri rifugiati riciclare un giubbotto all’inizio ha riaperto ferite mai rimarginate. Come è accaduto ad Ammar e a sua moglie che ricordano ancora di un bimbo morto annegato durante la traversata. “Il suo nome era Alan Kurdi” dice la donna. Il bimbo è il piccolo siriano di 3 anni la cui foto, che lo mostrava senza vita su una spiaggia turca, ha fatto il giro del mondo. Oggi per la coppia non è più un problema lavorare quei giubbotti e “il laboratorio è un buon posto in cui conoscere altre persone del posto e imparare la lingua”.