Wimbledon abbraccia il tie-break al 5° set, ma dal 12-12. Così rimane unico nel caos del tennis di oggi
Perché l‘All England Club prende proprio ora una posizione così netta, e storica, pur ribadendo la sua diversità da tutte le altre gare di tennis?

Wimbledon si disputa dal 1877, ha dettato le regole ufficiali del tennis e ha riaperto le porte dei professionisti nel 1968. Wimbledon è sempre il verbo di questo sport e vuole continuare ad esserlo. Così, dopo aver proclamato che aumenterà la sua estensione da 43 acri addirittura a 115, oggi annuncia che, sul 12-12 del quinto set, le partite dei Championships - nell’unico Major che ancora si disputa sull’erba, dopo l’abiura di Us Open e Australian Open - non proseguiranno più ad libitum, finché cioé uno dei contendenti non abbia raggiunto il distacco di due games sull’avversario, ma si decideranno con un classico tie-break. Adeguandosi quindi agli Us Open (che già adottavano questo sistema, come la colpa Davis), ma non a partire dal tradizionale 6-6 bensì dal 12-12.
Perché l‘All England Club prende proprio ora una posizione così netta, e storica, pur ribadendo la sua diversità da tutte le altre gare di tennis? Qualcosa dice che agisce sull’onda degli interminabili match dell’anno scorso, a cominciare dalla semifinale-maratona, affatto appassionante, fra i bombardieri Isner e Anderson, comunque lontana con le sue sei ore di servizio e pochi altri scambi dalle undici ore in tre giorni del leggendario Isner-Mahut del 2010.
Chris Kermode, presidente dell’ATP, l’associazione dei tennisti professionisti che, il 6-10 novembre alla Fiera di Rho, organizza insieme alla Federazione italiana e a Coni Servizi la seconda edizione delle NextGen Final coi migliori under 21 mondiali, sostiene che il cambiamento di regole deciso da Wimbledon è merito proprio della rivoluzionaria formula di gioco del torneo italiano. Cioé set che si decidono ai 4 games, no let, riscaldamento ridotto, tempo al servizio segnato da un cronometro che, dopo il test sui giovani di 12 mesi fa è stato adottato anche sul circuito maggiore.
“Penso proprio che la decisione di Wimbledon sia un effetto delle innovazioni sperimentate l’anno scorso a Milano. Certi cambiamenti vanno introdotti, senza fretta e dopo adeguata sperimentazione, ma è meglio farlo quando si è al massimo della popolarità che in crisi», ha detto il n. 1 dell’ATP che ha ascoltato con attenzione il presidente Fit, Angelo Binaghi, rilanciare la clamorosa candidatura di Torino per ospitare il Masters maschile: “Ne parleremo nel consiglio federale di domani a Torino”.
Tornando a Wimbledon e alla sua decisione, vuole assolutamente ribadire la sua forza e la sua personalità in un momento di grande incertezza del tennis: la nuova coppa Piquet voluta dalla Federazione internazionale (Itf) rischia di deragliare già prima di aver rivoluzionato la coppa Davis perché i più forti non vogliono giocare a fine novembre, e intanto la nascitura World Team Cup, nella quale confluiranno dal gennaio 2020 la vecchia edizione della prova (che si è disputata sulla terra a Dusseldorf dal 1978 al 2012) e anche l’ex Grand Slam Cup. Diciotto nazioni a novembre, ventiquattro a gennaio, con prima il Masters, e dopo gli Australian Open. Tutto questo mentre Patrick Mouratoglou trasforma in attacco l’errore della finale degli Us Open, chiedendo ufficialmente il coach in campo come in Davis e Fed Cup, stravolgendo definitivamente uno sport che salta l’individualismo e quindi la capacità del singolo di risolvere i suoi problemi.
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