Fatti più in là, old generation. Era questa la mission che l’Atp aveva in mente, due anni fa, quando Federer e Nadal scricchiolavano rumorosamente ed entravano in bacino di carenaggio, mentre gli altri due Fab Four, i “gemelli” del maggio 1987, Djokovic e Murray, accusavano i segni del violento mulinare di braccia da tennis moderno. Non avendo un chiaro candidato alla successione al vertice, si puntò giustamente al vasto gruppo di aspiranti stregoni, la NextGen, promuovendo un circuito alternativo proprio, che culminasse con le Finals fra i migliori under 21 dell’anno, di scena per cinque anni, a novembre, in Italia (nel 2017 e 2018 alla Fiera di Rho).
Il progetto è risultato vincente, anche sulla spinta del bonus di dollari, ma è stato ostacolato dai vecchi, che, un po’ come succede nella nostra società, non mollano la poltrona. Per orgoglio, per sfida verso i rivali vecchie e nuovi e, soprattutto, verso se stessi, per concludere un’opera che non è mai conclusa, per aggiungere record che non sono mai finiti, per paura della vita comune, non da super-eroi.
Chi parte favorito agli Us Open
Ecco allora che, a sorpresa, Federer e Nadal non solo sono tornati protagonisti al vertice, ma hanno riconquistato gli Slam, si sono seduti ancora sul trono del numero 1 del mondo, hanno dato altre lezioni di tennis ai giovani e agli eterni secondi. E anche agli Us Open, nell’ultimo Slam della ragione 2018, partono da favoriti, nell’ordine, Djokovic, Federer, Nadal alla conquista di un torneo che hanno già vinto e che hanno tantissime motivazioni per riconquistare. Con la ferma intenzione di ricacciare ancora una volta indietro i sogni di gloria di tutti gli altri, a cominciare dalla NextGen. Che scalpita, sgomita, strepita, ma ancora non sembra avere gli artigli adatti.
Certo, quel “fatti più in là, old generation”, ci sta benissimo nel Nuovo Mondo, Stati Uniti, nella città elettrica che non dorme mai, New York, sulla scia di una annata che ha confermato il solido Sascha Zverev, che ha consolidato le ambizioni del genietto mancino Dennis Shapovalov, che ha lanciato il tennis champagne di Stefanos Tsitsipas, che ha proposto il nuovo Hewitt, De Minaur, e la nuova speranza afroamericana, Frances Tiafoe, che ha rivalutato la grande promessa yankee, Taylor Fritz, che ha sperimentato il trionfo della globalizzazione, Felix Auger Aliassime.
Mentre, i protagonisti giovani del 2017, da Coric a Chung, da Khachanov a Rublev, a Medvedev, si sono scontrati col primo anno importante da pro. E la scommessa Nick Kyrgios rimane tale ormai da anni, ahilui, a dispetto delle fin troppe qualità.
La ricerca del salto di qualità agli Slam
Qualcuno di questi baldi giovanotti può legittimamente sperare di fare, nelle prossime due settimane, il definitivo salto di qualità negli Slam, sui cinque set, resistendo, insieme alle mille sirene della Grande Mela anche alle troppe esigenze del pubblico e alla pressione dei media?
Come qualità, certamente sì, almeno Zverev, Kyrgios e Tsitsipas potrebbero anche farcela, sulla carta, ma tutti e tre hanno evidenti limiti di tenuta psico-fisica. Coach Ivan Lendl, che la famiglia Zverev ha richiamato dalla terza pensione dopo il miracolo-Murray, potrà apportare i correttivi giusti all’intensità del bambino d’oro Sascha, a tratti troppo presuntuoso e supponente, ma il processo vedrà probabilmente i suoi frutti un po’ più avanti, anche se il tabellone di New York gli è molto favorevole. Su Kyrgios, con quei limiti di voglia, passione e sacrificio con sui s’accompagna, sospendiamo il giudizio: dipende troppo dal picchiatore australiano che ha spesso deluso.
E Tsitsips, che sta lanciando la new wave, mixando potenza e fantasia con una spruzzata di discese a rete, sembra accusare ancora qualche lacuna atletica importante. Gli “ancora”, i “forse”, e i condizionali sono d’obbligo sulla superficie più democratica del tennis che lascia spazio a ogni prototipo di giocatore, perché abbiamo visto altri giovanissimi esplodere all’improvviso, ma in epoche diversi, peraltro nello Slam che negli ultimi dieci anni ha proposto sei vincitori diversi.
Oggi, questo tennis richiede sforzi fisici e mentali superiori, che si esprimono più avanti, negli anni. L’ultimi giovane finalista risale al 21enne Juan Martin Del Potro, nel 2009, quando rinverdì la tradizione, sei anni dopo il coetaneo Roddick, nel 2003, all’epoca del Super Saturday televisivo, con semifinali e finali un giorno dopo l’altro, a favore dei più giovani. Tanto che nel 2001 il 20enne Hewitt aveva approfittato di Sampras, bissando l’impresa del 2000 del 20enne Safin sempre su “Pete the pistol”.
Una nuova stella?
Per cui, a questi Us Open, ci piacerebbe tanto veder spuntare una nuova stella, ma vediamo piuttosto farsi avanti qualche giocatore di mezzo, un Marco Cecchinato, come al Roland Garros, un Anderson come a Wimbledon e già dodici mesi fa proprio a Flushing Meadows, anche un Fabio Fognini - perché no? -, o un campione a sprazzi, come gli imperfetti Raonic, Dimitrov e Cilic. Con meno chances ancora per i deludenti Goffin, sempre incerottato, e Thiem, sempre più distratto dalla wonder woman, Kiki Mladenovic, e i rientranti Wawrinka e Murray. Chec, comunque sono mossi da una stizza crescente, in parallelo al tempo che scorre via, insieme alle occasioni di gloria.
Insomma, questi Us Open sembrano terreno di conquista soprattutto per il ritrovato Djokovic, sulle ali dei trionfi di Wimbledon e Cincinnati, con Federer incattivito dagli ultimi stop - ma a forte rischio per il brutto sorteggio e per le pause che concede all’improvviso -, e Nadal, campione uscente, ma coi soliti punti interrogativi fisico & campi veloci.