Scrive Stefan Zweig nel 1924 in uno dei primi e, con buona pace di Sue Prideaux, tutt’ora impareggiati ritratti di Friedrich Nietzsche, che egli fu la cavia di se stesso. Condannato a una interminabile serie di dolori e malattie croniche tanto da arrivare a pensare alla pistola come a una “fonte di pensieri relativamente gradevoli”, Nietzsche riuscì con forza sovrumana a sublimare la sofferenza in conoscenza, ne fece “autosalvazione”. Nelle epoche più dolorose della sua vita, osserva Zweig, è sempre possibile scorgere un inspiegabile aumento di produttività. “I miei libri parlano dei miei superamenti”, scrive in uno dei suoi ultimi appunti, a un soffio dalla follia. Un’esperienza simile la testimonia anche Rustin Spencer “Rust” Cohle.
Verità utile finzione: il nichilismo creativo di Cohle e Nietzsche
Interpretato da un superbo Matthew McConaughey, Rust è il protagonista della prima serie di True Detective (HBO, 2014). Irreprensibile voce della visione antiumanista di Thomas Ligotti, cui si ispira lo sceneggiatore Nic Pizzolatto, Rust si muove insieme al suo collega Martin Eric “Marty” Hurt (Woody Harrelson), in una Lousiana di alluminio e di cenere impegnato con tutto se stesso a braccare gli autori di una serie di omicidi rituali perpetrati contro giovani e giovanissime vittime. Si tratta di belve, depravati predatori di miseria e di solitudine da sacrificare sull’altare di un satanismo rurale, suprematista e psicotico. Per Marty e il distretto di polizia ce n’è abbastanza per catalogare tutto sotto la voce “follia” e tentare di salvare il salvabile.
Un sano gesto di autodifesa contro l’orrore con cui si trovano costretti a convivere. Per Rust no. Rust come Nietzsche sa che la risposta alla violenza e al dolore è solo una necessità logica, un modo per darle un senso e renderla più sopportabile, un’“illusione d’ottica morale”. La vita è caso e orrore e proprio perché le cose non hanno significato occorre agire. La verità è un utile finzione, nulla di saldo, sintomo della forza di chi l’ha momentaneamente piantata nel terreno franoso della vita. La verità non esiste e, per questo, va cercata. L’ordine non esiste e, per questo, siamo chiamati a fondarne di nuovi. Nietzsche catalogava questo apparente controsenso con l’espressione di “nichilismo attivo”, Rust lo traduce nella disperata ricerca di giustizia.
True Detective e la nascita della filosofia pop
Mischiare il piano nobile della filosofia con quelli bassi progettati dall’industria dell’enterteinment può apparire un indecoroso gioco d’azzardo. Eppure lì fuori c’è un mondo, ci sono intellettuali come Simone Regazzoni, Tommaso Ariemma, Salvatore Patriarca e molti altri che provano a sconfinare, ribaltare gerarchie e confondere dimensioni mettendo insieme in nome della PopSofia (un genere che si è tradotto negli ultimi anni anche in un riuscito Festival) Platone, Spinoza, Foucault e Derrida con Lost, Harry Potter, “Ritorno al futuro”, le Nike e Maria De Filippi. Le sbavature non mancano, ma vivaddio.
Tra i popfilosofi si è iscritto anche Antonio Lucci, giovane studioso ora in forza all’Università di Hannover, scrupoloso interprete di un acrobatico del pensiero come Peter Sloterdijk e, a quanto pare, anche delle tortuose sceneggiature della serie televisiva scritta da Nic Pizzolatto. In un piccolo volumetto da poco uscito per “Il Melangolo”, “True Detective. Una filosofia del negativo” Lucci individua per ogni episodio un tema e con acribia da accademico ben compensata dal rispetto per il pubblico così caro allo showbiz traccia orizzonti culturali, autori di riferimento, letture possibili di citazioni altrimenti destinate a rimanere frammentarie.
La coscienza, che errore! Il debito di Rust con Thomas Ligotti
È quello che accade con il Ligotti pensiero di Rust. Già nella prime battute della serie, Rust palesa la sua weltanschaung: “Le persone, qui attorno, è come se neanche sapessero che esiste un mondo là fuori. Esiste un unico ghetto, Marty. Un’enorme cloaca che fluttua nello spazio”. Contro il mondo, contro l’umanità e contro se stesso, Rust si fa portavoce di un nichilismo che non fa prigionieri: l’orrore è la regola e non l’eccezione, l’insensatezza lo sfondo reale su cui gli uomini fantasticano orizzonti di senso.
“Credo che la coscienza umana sia un tragico passo falso dell'evoluzione. Siamo troppo consapevoli di noi stessi. La natura ha creato un aspetto della natura separato da se stessa. Siamo creature che non dovrebbero esistere per le leggi della natura. Siamo delle cose che si affannano nell'illusione di avere una coscienza. Questo incremento della reattività e delle esperienze sensoriali è programmato per darci l'assicurazione che ognuno di noi è importante, quando invece siamo tutti insignificanti”.
A poco vale il meritorio tentativo di Marty di smorzare i toni con una chiosa del tipo: “Hmm, mi sembra una gran bella stronzata!”.
L’Ultimo Messia
Se il debito dell’ispettore Cohle con Ligotti è noto, quello con Peter Wessel Zapffe lo è meno, e Lucci puntualmente lo segnala. Idee, concetti e atmosfere de “La cospirazione contro la razza umana” affondano infatti le radici nell’“Ultimo Messia”, libro pubblicato nel 1933 da Zapffe, semisconosciuto letterato norvegese, persuaso che la coscienza sia un incidente evolutivo per colpa del quale ci ostiniamo a crederci dei soggetti con un posto assegnato nel teatro del mondo. E invece siamo cose insignificanti e sofferenti nell’innocenza del divenire.
“Io credo – spiega Rust a un Marty ormai stravolto – che la cosa più onorevole per la nostra specie sia rifiutare la programmazione. Smetterla di riprodurci. Procedere mano nella mano verso un’ultima mezzanotte”. E ancora più estremo, nel secondo episodio: “Credo sia da presuntuosi volersi ostinare a sottrarre un’anima alla non esistenza, trascinare una vita dentro questo tritatutto”. Stravolto ma non intontito, Marty a questo punto gli fa notare la sua incoerenza. Se niente ha senso, perché ostinarsi dare la caccia a degli assassini? Il caos non conosce ingiustizie.
Niente ha senso, tutto ha senso
E qui torna Nietzsche. Nella sua fenomenale opera d’esordio, la “Nascita della tragedia dallo spirito della musica” (1871), il ventisettenne filologo tedesco illustra al mondo che la fiamma inarrivabile della cultura greca arde grazie (e non nonostante) a una radicale consapevolezza della dimensione tragica dell’esistenza. Il “motore produttivo” dello sviluppo di quel modo di stare al mondo che avrebbe preso il nome di Occidente sta nell’intima presa d’atto di un’universale assenza di senso. Un fenomeno che si riflette nella vicenda di Rust. “C’è un nucleo paradossalmente etico – spiega Lucci – nell’assoluto nichilismo di Rust Cohle: anche se il mondo è una cloaca e gli esseri umani condannati, se pure l’unica liberazione è la morte, per chi non è ancora morto (e non ha la predilezione al suicidio) agire è un obbligo morale che ci porta a tentare di fare del nostro meglio al fine di minimizzare il dolore e l’orrore”.
La galassia filosofica di True Detective
Nel ripercorrere la trama di True Detective si passa così da Nietzsche alle dicotomie della Gnosi, dalla teoria dei memi di Richard Dawkins alla teologia di San Paolo, da Schopenhauer all’“orrore sovrannaturale” di Lovecraft. Si rileggono dialoghi, tornano alla mente scene, inquadrature, sature luci di una splendida serie tv e, nel mentre, si familiarizza con concetti, genealogie, autori sentiti tra i banchi di scuola e per molti appassionati spettatori mai più.
Lucci è bravo anche se ogni tanto perde la misura, tipo quando scomoda la formula heideggeriana della “differenza ontologica” per descrivere la trama nascosta dei tatuaggi di Reggie Ledoux, un membro della setta, o quando individua in un passaggio della Lettera ai Corinzi di Paolo la possibile chiave narrativa delle indagini di Rust e Marty. Ma sono dettagli, slanci da cultore della materia, tic maturati tra Dipartimenti di Filosofia che tempo e pop avranno cura di smaltire.
Errol Childress, il mostro divoratore del tempo
Nella galassia di autori che accompagnano la lettura della serie, Lucci finisce per citare pochissime volte uno dei suoi prediletti, Peter Sloterdijk, ma tanto basta per regalarci uno spunto utile a incuriosirci non tanto alle trame della serie ma a tratti inediti della modernità. Nei primi quattro minuti dell’ultima puntata, dal titolo “Form and Void” (La Forma e il Vuoto) assistiamo a sequenze che tracciano le linee conclusive del quadro psicologico e concettuale sia di Errol Childress che della sua setta e, annota Lucci, rappresentano un compiuto “trattato antigenealogico”.
Cosa vuol dire antigenealogico? Vuol dire ciò che non ha origini né discendenza. Childress (che per assonanza rimanda a childless, “senza figli”), il capo della setta, è torturatore del padre e carnefice di donne e bambini e, coma tale, si presenta come “l’incarnazione compiuta del mostro antigeneaologico par excellence: colui che non ha origine e non ha futuro”.
In uno dei suoi ultimi libri più sistematici, “I figli impossibili della nuova era”, Sloterdijk parla dello “schreckliches Kind” della modernità, il “mostruoso risultato della rivolta dell’epoca moderna contro il pensiero della continuità generazionale, dei figli simili ai padri, della solidarietà tra antenati e discendenti, genitori e figli”. Il tempo umano è segnato da nascita, procreazione e morte lungo una linea di continuità che, in “True Detective”, i “divoratori del tempo” provano a spezzare seguendo un piano infernale che promette di farli trascendere in un mondo divino o animale, ma di certo non umano. I riti sacrificali sono la depravata magnificazione di un io senza tempo proiettato al di fuori del noi della storia.
“Una volta c'era solo l'oscurità. Adesso la luce sta vincendo”
Al “Vuoto” idolatrato dai seguaci del Re Giallo si contrappone tuttavia la “Forma” che l’etica minima di un antiumanista come Rust invita a difendere, cercare e creare. Al termine della prima serie, sfuggito alla morte e in piena convalescenza, Rust viene mostrato quasi con le stesse inquadrature e tagli di luce della prima puntata: è insieme a Marty nel parcheggio dell’ospedale in cui è ricoverato. Rust è in una crisi di pianto e Marty per consolarlo gli chiede di raccontargli una delle sue storie. “C’è solo una storia, la più antica: la luce contro l’oscurità”. I due guardano il cielo. “A me sembra che l'oscurità abbia molto più spazio” risponde Marty. Rust alza gli occhi al cielo, e poi gli dice: “Credo che ti sbagli... sul cielo stellato. Una volta c'era solo l'oscurità. Adesso la luce sta vincendo”.