“Uhm, déjà-vu”.
“Cos’hai detto?”.
“Niente, solo che ho avuto un déjà-vu”.
“Esattamente cosa hai visto?”.
“Un gatto nero che mi era sembrato di aver appena visto”.
“Sai dire se era lo stesso gatto?”.
“Non lo so, ma cosa sta succedendo?”.
“Il déjà-vu è un problema tecnico, significa che tra poco qualcosa di brutto accadrà all’interno di Matrix”.
Quello che avete appena letto è il dialogo tra Neo e Trinity nel film Matrix in cui (inconsapevolmente) i fratelli Wachowski immaginavano che il déjà-vu fosse un errore del sistema. I due registi non erano andati molto lontani dalla verità, visto che questo misterioso fenomeno psichico è proprio considerato una forma d'alterazione dei ricordi (paramnesie).
Si tratta della sensazione molto vivida di aver già visto un avvenimento o una situazione che, di solito, vengono scatenate dalla vista casuale di oggetti, animali o persone. C’è chi l’ha provato qualche volta nella vita (si parla di 2 persone su 3), ma c’è chi invece la vive continuamente. Proprio queste persone sono state oggetto degli studi neuroscientifici, perché per anni si era pensato che c’era qualcosa che non andava nel loro cervello.
Questa ipotesi nasce proprio dagli studi clinici che hanno dimostrano come il déjà-vu sia un sintomo particolarmente riportato nei pazienti con schizofrenia ma soprattutto in quelli con epilessia del lobo temporale. Quest’ultimi sono il modello patologico più noto in letteratura, perché i déjà-vu possono essere, in realtà, una manifestazione sintomatica di una crisi epilettica. Durante una prima visita ambulatoriale è possibile che il paziente epilettico dica: “Dottore scusi ma io l’ho già vista? Io sono già stato qui da lei in visita!”. Questo falso ricordo, di solito, preannuncia l’arrivo di un attacco epilettico.
Fino al 2012, la letteratura neuroscientifica era molto chiara: la persona sana che vive continui dejà-vu nasconde una probabile vulnerabilità biologica per una forma pre-clinica di epilessia. Secondo l’Università di Leeds, il dejà-vu potrebbe essere collegato a discrepanze nei sistemi di memoria del cervello, portando l'informazione sensoriale a scavalcare la memoria breve termine per raggiungere quella a lungo termine provocando la sensazione inquietante che accompagna l’alterato evento. Mentre per i ricercatori dell’Università di Brno, un soggetto sano che prova costantemente questa sensazione nasconde una vera e propria atrofia cerebrale delle aree legate alla memoria a lungo termine (ippocampo) simile a quella che si riscontra nei pazienti con Epilessia.
Questa visione patologizzante del déjà-vu è stata, però, smentita dall’Istituto di Neurologia dell’Università Magna Grecia di Catanzaro che, nel 2015, ha dimostrato la fondamentale differenza neurobiologica che distingue le varie forme di déjà-vu. I pazienti epilettici che lamentavano continui déjà-vu prima di un attacco epilettico, avevano una perdita di materia grigia significativa nella corteccia visiva e nell’ippocampo (sede del nostro hard disk dove vengono collocati i ricordi dei luoghi della nostra vita). In altre parole, le aree deputate all’immaginazione e al ricordo degli eventi della nostra vita erano danneggiate, e, quindi, la sensazione di déjà-vu nei pazienti era giustamente motivata da un reale danno organico.
I soggetti sani che, invece, vivono questa esperienza, presentano piccole variazioni anatomiche in un’area cerebrale (corteccia insulare) che ha il compito di convogliare tutte le informazioni sensoriali all’interno del sistema limbico/emotivo. Si parla solo di differenze interindividuali, non di “atrofia” o “alterazioni patologiche”. Da questa “naturale” differenza nella variabilità anatomica scaturirebbe il fenomeno del déjà-vu che nascerebbe da un’alterata sensorialità legata al ricordo. In altre parole, noi pensiamo di aver già visto quel posto, ma, in realtà, è la sensazione che abbiamo provato nel vederlo che ci richiama uno stimolo mnestico precedentemente associato.
Ma il déjà-vu si può misurare?
Uno degli errori più frequenti che viene fatto, soprattutto in ambito clinico, è considerare il déjà-vu come un evento tutto o nulla, mentre è evidente che si tratta di un fenomeno che si manifesta lungo un continuum. Per cercare di caratterizzare in maniera qualitativa e quantitativa la sua manifestazione, nel 1994 fu creato l’IDEA test (Inventory for Déjà-vu Experiences Assessment), una batteria di 23 domande sulla fenomenologia del déjà-vu. Quando fu validato in Italia, si fecero scoperte molto più precise su cosa sia veramente il déjà-vu.
Andando a studiare oltre 1000 persone tra sani e soggetti con epilessia venne dimostrato che esistono due forme di déjà-vu: a) errore del sistema memoria: il classico alterato riconoscimento di un ricordo; b) stato psicologico: l’abbinamento di questi alterati ricordi con particolari stati psichici, come la derealizzazione, depersonalizzazione o i sogni ad occhi aperti. Questa componente psicologica del déjà-vu sembrerebbe più presente nei soggetti sani a dimostrazione che la memoria funziona bene ma che è la parte emotiva/sensitiva che svolge un ruolo diverso rispetto ai pazienti epilettici, in cui i déjà-vu pre-crisi sono caratterizzati da semplici errori del “sistema memoria”.
È o no un errore di sistema?
Per rispondere a questa domanda bisognerebbe studiare il cervello di una persona con epilessia (o un soggetto sano) nel mentre si esperisce un déjà-vu. Questo è ovviamente impossibile, perché, per definizione, si tratta di un fenomeno imprevedibile che accade durante la nostra interazione con il mondo esterno. Un altro fattore di impedimento è che nei pazienti con epilessia, l’arrivo di un déjà-vu potrebbe coincidere con un attacco epilettico e questo ovviamente invaliderebbe l’esame effettuato dentro una costringente risonanza magnetica.
Quindi in letteratura il déjà-vu può essere studiato solo “spingendo” il cervello a produrre un falso ricordo. Per far questo si possono utilizzare tanti stratagemmi. Uno dei più semplici è sottoporre un gruppo di persone sane (con frequenti o meni fenomeni di déjà-vu) a un test di memoria. In un recente articolo, dei ricercatori Italiani hanno chiesto a dei soggetti sani di apprendere una serie di luoghi guardando delle figure al computer.
Dopo 2 giorni, (quando si era sicuri che le informazioni erano state trasportate nella memoria a lungo termine), i soggetti venivano nuovamente sottoposti allo stesso esame ma, questa volta, dentro la risonanza magnetica. C’era però una piccola differenza rispetto alla prima fase, alcune delle immagini venivano, infatti, riproposte cambiando dei piccoli particolari, in modo tale da indurre a facili errori.
I soggetti con continui déjà-vu mostravano performance cognitive perfettamente nella norma, a conferma che il déjà-vu non è un errore di sistema. Ma il dato, forse, più interessante, era quello che usciva fuori dall’esame funzionale. Queste stesse persone sono anche caratterizzate da una differente attività durante la fase di ricordo che coinvolge maggiormente le aree del sistema limbico/emotivo e in particolare la corteccia insulare.
In conclusione, possiamo ipotizzare che il déjà-vu, altro non è che un modo diverso di ricordare, probabilmente dovuto a predisposizioni di carattere o attitudini. Ma questa è sola la fine della prima puntata. Restiamo in attesa di nuove scoperte su questo fenomeno che continua a mantenere inalterato il suo fascino.