“L’universo è un difetto nella purezza del non essere”, scriveva Paul Valery, ma i suoi non erano certo tra i componimenti preferiti dai nazisti. Non solo l’ebreo, lo zingaro, l’omosessuale, il disabile, quel che andava rimosso in nome della purezza dell’essere era l’ambiguo, il “mostruoso”. L’altro, finché è Altro, si inserisce in una gerarchia e rinvia a un ordine. L’ambiguo, invece, chiama in causa il principio stesso di ordinabilità.
Lo faceva notare qualche anno fa uno studioso americano, Boria Sax, in una ricerca sulla figura dell’animale nell’immaginario del Terzo Reich. “I nazisti – osserva Sax – enfatizzavano un ideale di purezza rispetto al quale essi erano ostili a ogni anomalia, umana o animale”. Nella visione nazista l’Altro ha un ruolo, chi invece non ha dignità d’esserci è l’impuro, l’ibrido, il mostro.
Pochi mesi dopo aver conquistato il potere, il 14 luglio del 1933, Hitler fa approvare la “Legge sulla prevenzione della generazione di prole affetta da tare ereditarie”, il 24 novembre dello stesso anno firma la “Legge sulla protezione degli animali”. Le due iniziative sono collegate: non è un caso che la legislazione eugenetica nazista fosse formulata di pari passo a una delle più avanzate legislazioni sulla protezione degli animali. Roberto Esposito in “Bíos. Biopolitica e filosofia” spiega che in entrambi i casi si trattava di proteggere delle rigide partizioni dell’essere, delle sostanze discrete, da una parte l’Uomo e dall’altra l’Animale. Ai loro occhi Il disabile, l’ebreo e lo zingaro non erano semplicemente l’Altro, erano l’Io e l’Altro insieme e, per questo, costituivano un pericolo mortale. “Colui su cui si esercitava la persecuzione e la violenza estrema – scrive il filosofo – non era semplicemente un animale ma un animale-uomo: l’uomo nell’animale e l’animale nell’uomo”.
Il problema, nella cornice teorica tracciata dall’ideologia nazista, era cioè rappresentato dagli sconfinamenti, dalle vite che risultano inclassificabili perché giudicate né solo umane né solo animali. Come ha scritto provocatoriamente R. J. Lifton in un lavoro considerato un classico della letteratura sulla Shoah, “I medici nazisti. La psicologia del genocidio”, Auschwitz va considerata un’“impresa sanitaria pubblica” orientata a selezionare gli uomini inficiati dall’animalità da quelli, invece, effettivamente e ulteriormente umanizzabili.
Studioso mediocre ma di successo, Hans F. K. Günther fu docente di Antropologia politica a Berlino negli anni Trenta e tra i più influenti teorici del regime. Le sue tesi esprimono in modo esemplare la visione di un’umanità da plasmare all’ideale della purezza. In uno scritto significativamente intitolato Humanitas (1937), lo “scienziato” contrappone al confuso umanesimo umanitarista la vera humanitas. “L’Humanitas – dice – è un compito da adempiere, un modello da raggiungere, un ideale di selezione […]”. Come a dire che a una umanità vera si può ascendere solo attraverso il filtro della selezione biologica. “Coloro che vedono nel Nazionalsocialismo nient’altro che un movimento politico lo conoscono assai poco. Esso è anche più di una religione: è la volontà di ricreare l’umanità” precisa Hitler.
Nel tentativo di dare una veste scientifica alle congetture di selezione razziale, come è noto, furono innumerevoli i richiami al darwinismo. Il che, al di là delle evidenti cialtronerie nate nel solco della retorica della selezione, è doppiamente paradossale perché è stato proprio Darwin a ridare una dignità perduta a ciò che è ambiguo. Nei mostri si nascondono le tracce da cui germoglia la vita. “A lunghi intervalli di tempo tra milioni di individui allevati nella stessa regione e nutriti pressappoco con lo stesso cibo, si presentano deviazioni strutturali così pronunciate da meritare il nome di mostruosità”. E aggiunge: “Non si può segnare un limite netto tra le mostruosità e le piccole variazioni”. Questo passaggio de “L’Origine delle specie” è la più efficace sconfessione della mistica della purezza ammantata dalle ragioni della biologia.
Per il fatto di essere diventata evoluzionistica la scienza della vita non può più permettersi di concentrare il suo sguardo solo sulle specie ma deve concentrarlo anche sulle loro condizioni di possibilità. Darwin, per così dire, comprende che l’ordine della natura non è poi così ordinato e lo comprende grazie a ciò che fino ad allora lo sguardo della biologia sistematica aveva accuratamente evitato di vedere. La nuova biologia deve dunque porre la sua attenzione non più soltanto sulla forma ma innanzitutto sul de-forme, su ciò che è in-formazione o ancora da formare.
L’ordine apparente della classificazione delle specie è solo l’illusione ottica di un osservatore pigro e ottuso perché basta allargare lo sguardo per scoprire che quelle specie sono l’esito di variazioni un tempo mostruose. Le specie, queste forme così salde, sono figlie di organismi un tempo ambigui e deformi perché né più appartenenti alla specie di origine né a quella che sarebbe poi diventata.
Quel che nella metafisica nazista è un’imperfezione dell’essere diventa per la scienza la condizione stessa di possibilità dell’essere. Il mostro, l’ibrido, il bastardo non sono sintomi di un’assenza che indebolisce ma aperture verso possibili futuri. Darwin ricongiunge l’uomo al suo sfondo animale e ne riconosce e celebra al tempo stesso l’impurità. “Se decidiamo di lasciar correre le congetture – scrive il giovane naturalista nei suoi Taccuini – allora gli animali sono nostri compagni, fratelli in dolore, malattia, morte e sofferenza e fame; nostri schiavi nel lavoro più faticoso, nostri compagni negli svaghi; dalla nostra origine essi probabilmente condividono un comune antenato; potremmo essere tutti legati in un’unica rete”.