Il cuore, le acciughe e le pasticche della discordia
Sempre la stessa storia: la ricerca è corretta, i risultati travisati e la confusione resta alta

Nei giorni scorsi ha destato particolare scalpore la notizia di uno studio clinico randomizzato controllato che vorrebbe ridimensionare il ruolo degli omega-3, acidi grassi polinsaturi di origine ittica o vegetale, nella protezione del cuore di 15.480 pazienti diabetici senza aterosclerosi e malattie cardiovascolari.
Le conclusioni dello studio ASCEND (così si chiama), già presentate in occasione dell’ultima edizione del principale congresso della Società Europea di Cardiologia e ora pubblicate nella prestigiosa rivista New England Journal of Medicine sono state riportate da diverse testate di tutto il mondo, le quali ne hanno tratto conclusioni approssimative sotto titoli roboanti che proclamano l’inutilità scandalosa dell’assunzione giornaliera di capsule ricche di omega-3, come gli acidi eicosapentaenoico (EPA) e docosaesaenoico (DHA) che abbondano nel pesce azzurro o come l’acido alfa-linolenico (ALA) che abbonda nelle noci, nel prevenire gli eventi cardiovascolari letali, come l’infarto acuto del miocardio. Lo studio ASCEND, eseguito in modo corretto, conferma le conclusioni di due recenti meta-analisi indipendenti che stabiliscono come la supplementazione della dieta con concentrati di omega-3 non riduce il rischio di morte in soggetti ad alto rischio cardiovascolare nei paesi ad alto reddito.
In realtà le cose stanno in maniera diversa, sebbene non si possa continuare a ignorare l’esistenza di un annoso disaccordo sui possibili benefici cardiovascolari dell’integrazione della dieta con omega-3 in pazienti diabetici e cardiopatici.
La posizione della American Heart Association
L’American Heart Association (AHA), una tra le più grandi associazioni scientifiche internazionali che si dedicano allo studio e alla prevenzione delle malattie cardiovascolari, da qualche anno non raccomanda l’uso degli integratori a base di omega-3 per la prevenzione primaria delle malattie cardiovascolari, soprattutto nei diabetici e negli individui sani ad alto rischio cardiovascolare.
Dal 2017, tuttavia, la stessa AHA raccomanda l’uso di omega-3 per la prevenzione secondaria dello scompenso cardiaco in pazienti che hanno subito un infarto. In particolare, la società scientifica statunitense raccomanda l’assunzione con la dieta di uno o due pasti a settimana a base di pesce per ridurre il rischio d’insufficienza cardiaca congestizia, malattia coronarica, ictus ischemico e morte cardiaca improvvisa.
E’ ben noto che l’assunzione di pesce azzurro favorisce un aumento dei livelli circolanti di HDL (il colesterolo buono) grazie all’alto contenuto di omega-3, i quali, se assunti alle dosi giuste (almeno tre grammi al giorno), regolano anche i livelli di metilazione del DNA favorendo l’espressione di geni che determinano la normalizzazione dei livelli di trigliceridi, glucosio e colesterolo.
È questione di dosi
Come mai il nostro cuore è protetto dal consumo settimanale di pesce fresco e non dall’ingestione giornaliera di capsule infarcite di olio di pesce o omega-3 sintetici? Il pesce contiene, oltre a EPA e DHA, altre sostanze cardioprotettive che noi non conosciamo oppure ci sfugge qualcosa? Tutto è ancora sotto la lente dei ricercatori e non si escludono colpi di scena che potrebbero andare ben oltre il contenuto di metalli pesanti e plastiche che ammalano i nostri pesci.
Sebbene l’assunzione di almeno 250grammi di trota fresca due volte al giorno alla settimana sia più efficace delle capsule di olio di pesce nel ridurre i livelli di grassi nel sangue di 101 pazienti iperlipidemici, durante la lettura di entrambi gli articoli, oggetto dei pronti commenti dei mass media, un aspetto sostanziale ha catturato subito la mia attenzione: la dose.
Nonostante ASCEND sia il primo studio che ha testato l’effetto cardioprotettivo degli omega-3 in un numero molto elevato di pazienti diabetici con un rischio cardiovascolare da basso a moderato e sia quello con il follow-up più lungo (7.4 anni), la dose somministrata di 1 grammo al giorno (460 mg di EPA e 380 mg di DHA) è troppo bassa per garantire un beneficio al nostro cuore, come oggi sappiamo.
Non solo, ma molti studi inclusi nelle recenti meta-analisi, quelle commentate dai giornali di tutto il mondo, hanno testato una dose giornaliera insufficiente di omega-3 ovvero inferiore al grammo. E’ molto plausibile, quindi, che i benefici cardiovascolari degli omega-3 siano più efficaci solo a dosi giornaliere non inferiori ai 2 grammi e non superiori ai 4 grammi, dose massima che non andrebbe superata perché potrebbe favorire la sintesi di nuovo colesterolo tipo LDL (il colesterolo cattivo).
Aldilà delle statistiche che scandalizzano, non si discute che per ridurre del 25-50% i trigliceridi circolanti, noti fattori di rischio cardiovascolare, occorrerebbe garantire al nostro organismo 3-4 grammi al giorno di omega-3 per almeno un mese. Infatti, da più di tre decenni è noto che gli omega-3 riducono il trasporto degli acidi grassi al fegato e la loro neosintesi, oltre che la loro disponibilità alla sintesi epatica di nuovi trigliceridi.
I dati confortanti di altre ricerche
Si spera che due grandi studi clinici randomizzati controllati, chiamati REDUCE-IT e STRENGTH, che stanno oggi valutando gli effetti cardioprotettivi di una dose giornaliera di 2-4 grammi di omega-3, in aggiunta alle statine, in pazienti con ipertrigliceridemia, abbiano una rilevanza clinica tale da produrre un rapido chiarimento delle storiche controversie.
Intanto, un nuovo studio multicentrico randomizzato controllato chiamato ROMANTIC ha già dimostrato che l’assunzione quotidiana di 4 grammi di omega-3 e 20 mg di rosuvastatina induce una maggiore riduzione dei trigliceridi e del colesterolo non-HDL nel sangue di 201 pazienti con ipertrigliceridemia residua precedentemente trattati con sole statine.
Si tratta di un dato molto confortante se si considera che il numero dei pazienti che non rispondono alle statine è in costante aumento e mancano soluzioni alternative, nonostante ci siano numerosi tentativi di voler togliere il titolo di fattore di rischio cardiovascolare all’eccesso di grassi circolanti nel sangue ed il valore attuale nell'industria dei farmaci per abbassare il colesterolo sia stimato in circa 20 miliardi di dollari, ma questa è un’altra storia.
Se avete correzioni, suggerimenti o commenti scrivete a dir@agi.it