“Ostruendo le orecchie con le dita, se per un giorno non si sente nessun ronzio interno si sappia che si morirà dopo sei anni…”: è uno dei segni descritti nel “Libro tibetano dei morti”, utile a “pronosticare” l’ora fatale.
Non so se i colleghi olandesi, finlandesi e tedeschi abbiano pensato a questo libro nel pubblicare i risultati del loro studio “A metabolic profile of all-cause mortality risk identified in an observational study of 44,168 individuals” su Nature Communication in questi giorni.
I ricercatori hanno infatti identificato una serie di biomarcatori biologici in grado di predire con un buon grado di accuratezza il rischio di mortalità con un semplice esame del sangue. Gli scienziati hanno analizzato il sangue di circa 45.000 individui con una età uguale o maggiore di 60 anni di entrambi i sessi. Dopo un'analisi biochimica approfondita, sono riusciti ad identificare 14 biomarcatori: 14 “indicatori di livello” che forniscono informazioni sulla durata di vita residua entro i successivi cinque o dieci anni nella vita dei soggetti analizzati.
I biomarcatori identificati in realtà sono ben noti ai nostri clinici e riguardano alcuni aminoacidi, il profilo lipidico e marcatori dell’infiammazione. La novità riguarda essenzialmente il metodo di analisi che non solo è specifico e sensibile, ma è soprattutto in grado di combinare tra loro i diversi marcatori e fornire uno “score” cumulativo di rischio ben definito, con una accuratezza superiore all’80%.
Abbiamo dunque un test di laboratorio per la predizione della mortalità individuale? No.
Nel loro studio, i colleghi – molto correttamente – fanno riferimento ad un test di vulnerabilità degli anziani che potrebbe essere di grande aiuto nelle cliniche di lunga degenza e negli ospedali, con lo scopo di monitorare malati cronici e pazienti molto anziani. L’obiettivo è quello di anticipare la vulnerabilità ed apportare correttivi terapeutici (ad esempio, monitorare l’effetto di farmaci utilizzando questi marcatori) oppure di modificare lo stile di vita nel momento più opportuno.
C'è ancora molta strada da fare (studi longitudinali, studi in diverse popolazioni, sviluppo di algoritmi integrati) per avere a disposizione un test generale di mortalità per singolo individuo.
Sono troppe le variabili individuali che influenzano lo stato di salute di ogni persona, a cominciare dal proprio genoma e dal proprio epigenoma, oltre naturalmente ai fattori ambientali, allo stile di vita e all’alimentazione. Tuttavia, la possibilità di integrare i propri dati genomici con questi 14 biomarcatori potrebbe consentire un giorno ai medici di utilizzare le analisi del sangue per prevedere la probabilità che una persona sopravviva per altri 5-10 anni, con un metodo razionale e scientificamente valido e non basato sulla ostruzione delle orecchie…
Accogliendoli con la doverosa cautela, soprattutto per scongiurare misinterpretazioni da parte del singolo, ben vengano dunque studi capaci di offrire nuove e più ampie informazioni sulla meravigliosa macchina che è il corpo umano, di cui tanto la scienza oggi conosce, ma che per molti aspetti resta ancora terra da esplorare.