Il primo passo per curare un ammalato è aiutarlo ad accettare la sua condizione di malattia. Aiutarlo a capire cosa lo ha colpito, ma anche che la sua condizione di malato non è nè una colpa, nè una vergogna, ma la conseguenza di meccanismi naturali, per quanto drammatici. Questo è tanto più importante per una malattia come l'AIDS, che non erode solo il corpo, ma scava dentro l'anima. Che non colpisce solo l'individuo, ma è socialmente destrutturante perchè con il suo stigma è in grado di disgregare la rete delle relazioni sociali, distruggere gli affetti, creare il vuoto intorno al paziente che si ritrova solo con la sua sofferenza. Morale oltre che fisica.
Si muore prima dentro che fuori. Fernando Aiuti questo lo sapeva benissimo. La sua battaglia contro l'AIDS non l'ha combattuta solo in laboratorio, dove pure ha dato contributi importanti. Fernando ha sempre cercato di liberare i pazienti dallo stigma e dal pregiudizio, prima ancora che dal virus. Perché da brillante scienziato che era, sapeva che per sconfiggere l'HIV servivano armi che ancora non c'erano, mentre quelle per abbattere i pregiudizi tutti se le portano dentro: si chiamano cuore, per riconoscere la sofferenza, e ragione, per comprenderne le cause. Non abbiamo ancora sconfitto HIV.
Purtroppo non abbiamo neanche sconfitto i pregiudizi verso chi ha incontrato questo nemico invisibile. Fernando Aiuti ci ha lasciato, prima ancora che i risultati delle sue ricerche, la forza della sua testimonianza. La foto di quel bacio a Rosaria nel 1991, iconica quanto il famoso dipinto di Hayez, riassume la filosofia di Fernando: la prima cura è ridare dignità alla persona. Questo fa la differenza tra un grande medico e un grande uomo. Altri più titolati di me ricorderanno in questi giorni i suoi molti meriti. Io che l'ho conosciuto solo attraverso il suo lavoro, adesso che non c'è più è in quel bacio che lo voglio ricordare.