Questo articolo è uscito nell'inserto 'Tutto Libri' del quotidiano La Stampa sabato 17 novembre 2018.
Ho appena finito di leggere The Game. E ho capito perché l’ho letto su carta. Solo dieci anni fa, ma anche cinque, o anche due, siamo sinceri, avrei scelto il formato digitale, l’ebook. Faccio parte di quelli che da Internet sono stati folgorati dalla prima ora. No, non mi riferisco ai primi collegamenti fra computer del 1969; o al mitico e misterioso protocollo tcp/ip: quella è la preistoria della rete. Roba da iniziati. Mi riferisco al 1999. Ricordo che andai da Ezio Mauro, il direttore del giornale per cui lavoravo, e gli dissi: Vorrei andare a Mountain View. A fare che?, mi chiese incuriosito. A studiare Google. Il motore di ricerca era nato da manco un anno ma era già una meraviglia: prendeva quel caos primordiale che erano i siti del Far Web e lo rendeva comprensibile. E soprattutto, finito, direbbe Alessandro Baricco.
Dentro Google c’era tutto (un’altra parola, un altro concetto chiave di The Game) e aveva un ordine, un ranking: e quindi, un senso. Partii. Ma devo dire che solo adesso capisco che quel viaggio in Silicon Valley fu perfettamente inutile: perché la verità è che io cosa è davvero successo in questi venti anni, il senso profondo della rivoluzione digitale, le sue premesse a tratti inconsapevoli eppure evidentissime, e soprattutto le sue conseguenze, molte non volute né previste, io tutte queste cose le ho capite solo adesso: leggendo The Game.
Sarò sincero fino in fondo. Ho iniziato a leggerlo con un certo scetticismo. Non fraintendetemi. Io adoro l’autore. E considero i Barbari uno dei libri fondamentali letti in questi anni. Ve lo ricordate? Era il 2006 e uscì a puntate su Repubblica: era, tecnicamente, un “saggio sulla mutazione”, cioé un ragionamento su come il digitale ci stava cambiando il modo di pensare e quindi di vivere. Baricco lo faceva a modo suo, cioé attraverso esempi apparentemente lontanissimi eppure perfetti, come il cambiamento del sapore del vino o nel modo di giocare a calcio. Ma ricordo soprattutto una frase: “Respirare il mondo con le branchie di Google”. Voleva dire che avanzava (minacciosa?) una nuova specie umana: sembravano noi ma respiravano in un altro modo. Barbari.
Dopo aver seguito il viaggio a puntate su Repubblica, che simbolicamente si concludeva sulla Grande Muraglia cinese per ricordarci che hai voglia a tirar su muri, il futuro prima o poi arriva; dopo, naturalmente comprai il libro e non contento nel 2010 andai da Baricco, che non conoscevo, e gli chiesi: “Come è andata a finire?”. Lui mi guardò spiazzato: “Cosa?”. “I barbari. Hanno vinto, alla fine?”. Fu molto gentile, mi scrisse l’ultimo capitolo e si fece fotografare con un elmo barbaro in mano per la copertina di Wired.
La faccio breve, perché da allora io Baricco non l’ho più mollato: ne ho seguito le rare e preziose “lecture” sugli argomenti più disparati (ma dove il digitale in qualche modo spuntava sempre); e sono tra quelli che, quando ha deciso di scrivere il vero secondo tempo dei Barbari, The Game ovviamente, ha incontrato per capire meglio. E quindi questo libro ho iniziato a leggerlo con lo spirito che hanno quei bambini quando controllano l’album delle figurine appena completato: celo, celo, celo. La differenza fra Internet e il web? Il senso nascosto dell’iPhone? Il meccanismo segreto di Facebook? Lo sapevo già. Avevo tutte le figu, che noia.
Ma adesso che ho finito The Game posso dire: sapevo tutto, ma non lo avevo davvero capito. Cosa ho capito? Il motivo profondo per cui c’è stata l’insurrezione digitale (Baricco la chiama così, capirete perché); cosa rifuggiva, senza saperlo, la cultura hippie e pacifista che c’era dietro i pionieri della rete; la tendenza adolescenziale, e un po’ paracula, a trasformare la nostra vita, qualunque gesto, in un infinito videogame.
E soprattutto ho capito perché inizio a sentire un certo disagio persino io là, nel digitale, in quello che Baricco chiama l’oltremondo; io che nel 2009 candidai Internet al premio Nobel della Pace (e per un soffio non vinse); io che ho trascorso almeno un paio di anni della mia vita a provare a dire a tutti gli italiani “connettevi!”, come fanno i profeti quando indicano una terra promessa gravida di opportunità. Io, che ora sento che qualcosa è andato storto.
È questa la terra promessa? Quella dove abbiamo dato il comando di tutto ad una nuova ricchissima elite che riduce la complessità del mondo alle variabili di un algoritmo; dove i lavori per cui hai studiato ti spariscono davanti agli occhi; e avanzano, sì stavolta, orde di barbari ignoranti e aggressivi che fanno sembrare i peggiori bar di Caracas dei collegi per educande. Quelli dove sembra sparita la cara vecchia verità su cui ha poggiato il mondo per un paio di millenni almeno.
È questa. Ma la cosa stupefacente, Baricco direbbe commovente, è che alla fine del libro tutto torna e capisci perché siamo dove siamo, perché le elezioni le vincono i populisti, perché le fake news sembrano aver vinto e perché noi ci sentiamo molto meno felici. Ma anche perché il mondo da cui siamo fuggiti, quello che stava al di là dei ponti che abbiamo bruciato a furia di fare app, era molto ma molto peggio. E perché la fine non è ancora scritta, e in fondo per fortuna dipende da noi. Gli esseri umani. Che non sono solo fatti di 0 e 1, anche se è comodo rappresentare il mondo digitale così. È comodo e meraviglioso, e indietro non si torna. Ma noi siamo molto ma molto di più. Per questo The Game l’ho letto su carta.