Fra i tanti indicatori del nostro tempo, uno dei più idioti è il cosiddetto screen time, il tempo che passiamo davanti allo schermo del nostro telefonino. Se ne parla sempre più spesso, per dire che dovremmo controllarlo, limitarlo. Giusto, in teoria. Ma si tratta di un indicatore che non vuol dire quasi nulla. Il punto non è quanto tempo passiamo con il telefonino. Ma per farci cosa? Giocare a Candy Crush o comprare il biglietto del treno? Una chat o la lettura di un saggio? Ascoltare Spotify o fare un esercizio di matematica per il compito in classe?
Neanche il dato “tempo trascorso su Facebook” che pure domina molte ricerche sociologiche, ha davvero senso. Infatti su Facebook possiamo fare un sacco di cose diverse, guardare un video virale, leggere un articolo del New York Times, comprare o vendere qualcosa sul marketplace, ingaggiarci in un qualche animato dibattito su un gruppo o cercare nei paraggi un evento per la serata. È sempre screen time, ma non è la stessa cosa.
In certi casi quel tempo andrebbe conteggiato come “lettura dei giornali”, in altri “videogame”, in altri ancora “ecommerce”, in altro ancora “studio”. Invece finisce in “tempo su Facebook”. Quello che rende la cosa più complicata, e interessante, è che nella nostra vita reale tutte queste azioni non sono rigidamente separate, ma spesso avvengono a distanza di pochi minuti o addirittura di secondi.
Per questo quando leggo le preoccupate indagini delle nostre autorità e istituzioni sullo screen time mi domando se questi signori davvero sanno cosa succede in rete. Lo spiega benissimo, finalmente, una indagine pubblicata sulla rivista Human-Computer Interaction, intitolata “Screenomics”, in cui si cerca di analizzare cosa succede durante il tempo in cui usiamo il telefonino.
Il punto non è mettersi davanti a noi con lo sguardo fisso sullo smartphone con un cronometro in mano, ma dietro le nostre spalle e scoprire cosa facciamo davvero (cosa che peraltro Facebook e Google sanno benissimo visto che usano questi dati per profilarci meglio agli inserzionisti pubblicitari). La ricerca dimostra fra le altre cose che in media una persona passa da un’attività all’altra ogni venti secondi e raramente passiamo più di venti minuti di fila facendo la stessa cosa, neppure guardare una serie tv.
Il risultato, diverso per ciascuno di noi, è il cosiddetto Screenoma, l’equivalente del Genoma, il nostro patrimonio genetico, quello che determina chi siamo. Lo Screenoma determina come stiamo. Il parallelo non è ardito: la nostra dieta mediatica, ovvero gli stimoli che diamo al cervello, hanno una potente influenza sul nostro benessere. Infatti sta emergendo un collegamento evidente fra lo screenoma e la felicità o la depressione. Vedremo i risultati, intanto faremmo bene a rottamare subito tutte le indagini basate solo sullo screen time. Per dirla con il New York Times, lo screen time è “tired”, lo screenoma è “wired”.