In tempi di svolte epocali sui decimali e di battaglie campali sul rapporto fra deficit e Pil, il prodotto interno lordo di ciascun paese, quello che è accaduto qualche giorno fa a Washington potrebbe avere un impatto notevole sul nostro futuro. Era il 19 novembre e nella sede del Fondo Monetario Internazionale erano riuniti i maggiori economisti del mondo per il sesto forum statistico. Stavolta il simposio andava dritto al cuore del problema del nostro tempo: come misurare la ricchezza di un paese in questa epoca digitale. Lo dico meglio: siamo sicuri che il tempo che trascorriamo sui social network non possa in qualche modo influenzare il famoso Pil e quindi diventare un parametro della produzione di valore di ciascun paese?
Una risposta affermativa avrebbe un impatto enorme. Mi spiego: un paese i cui abitanti passano molte ore su Facebook e Whatsapp, Instagram e Twitter, potrebbe avere un Pil più alto e quindi sarebbe autorizzato ad aumentare il deficit, ovvero potrebbe disporre di maggiori risorse da spendere. Pensate al reddito di cittadinanza: tu stai tutto il giorno a chattare, il Pil cresce e incassi l’assegno mensile. Le cose non stanno così ovviamente ma il ragionamento che c’è dietro non è per nulla campato in aria, come è emerso dalla due giorni del Fondo Monetario.
Tutto nasce da una considerazione banale: il Pil misura il valore della produzione in termini monetari, quanto un bene o un servizio viene pagato. Ma come ci ricordava nel 1968 Bob Kennedy in un discorso immortale che fece poco prima di essere ammazzato, non misura tutte quelle cose per cui la vita vale la pena di essere vissuta: la felicità per esempio. Con il digitale il discorso di Kennedy va aggiornato: il Pil infatti non misura nemmeno tutti quei servizi che sono apparentemente gratuiti: come Facebook, appunto, o anche Google, che svolgono un servizio ormai essenziale per molti di noi in cambio dei nostri dati personali che poi rivendono agli inserzionisti pubblicitari.
Ma lo scambio che avviene fra noi utenti della rete e Facebook non è misurato e quindi sfugge al conteggio del Pil: l’ecomomista australiano Kevin Fox, assieme al celebre professor del MIT Erik Brynjolfsson, ha condotto una ricerca per misurare quel valore, ovvero quanto gli utenti pagherebbero per Facebook, ed è venuta fuori la cifra notevole di 42 dollari al mese. A me sembra abbastanza incredibile, ma chi sono io per contestare la ricerca di due luminari?
Morale, l’impatto dell’uso di Facebook sul Pil degli Stati Uniti sarebbe un aumento dello 0,11 per cento. Un sacco di soldi, credetemi. Senza contare Whatsapp, Instagram e tutto il resto. Se la cosa vi appare senza senso, pensate a cosa è accaduto con le fotografie: nel 2000 nel mondo si scattavano 80 miliardi di foto l’anno, ciascuna costava 50 centesimi tra rullino e sviluppo, e questo finiva nel Pil di ogni paese; oggi con scattiamo 1,6 triliardi di foto l’anno, ma lo facciamo con i nostri smartphone, gratis e quasi mai le sviluppiamo e questo non finisce nel Pil. Il dibattito è appena iniziato, ma ricalcolare il Pil nell’era digitale non è una sciocchezza.