E quindi l’Agenzia delle Entrate è riuscita a incastrare un altro grande evasore fiscale. Per fare pace col fisco e chiudere i conti che vanno dal 2010 al 2016, dovrà versare circa 100 milioni di euro. Una bella somma. Parliamo di Facebook. L’accordo tecnicamente è un accertamento con adesione: vuol dire che la Guardia di Finanza, coordinata dalla procura di Milano, ha fatto un accertamento a Facebook Italia srl, ha verificato che sebbene operasse come stabile organizzazione, i ricavi venivano fatturati dalla capogruppo con sede a Dublino, in Irlanda, dove le imposte sono molto minori, e Facebook ha ammesso l’omesso versamento di 54 milioni più relative sanzioni.
L’Italia diventa così il terzo Paese del mondo dove Facebook paga le tasse: dopo gli Stati Uniti, dove ha la sede principale, e l’Irlanda, fino ad oggi comoda sede per le operazioni internazionali. Se ne parliamo qui è perché questa operazione non è isolata, anzi chiude un ciclo se possiamo chiamarlo così: alla fine del 2015 era stata la Apple a versare 318 milioni di tasse non pagate accertate dal fisco; nel 2017 è toccato prima Google, contribuire con 308 milioni per fare pari e patta dal 2002; e poi ad Amazon, altri 100 milioni circa. In tutto parliamo di oltre 800 milioni di euro recuperati ma soprattutto dell’affermazione di un principio fiscale che con gli opportuni adattamenti non può non valere nell’ecosistema digitale.
Di questi temi la politica discute da anni. Nell’Unione Europea, che sarebbe la sede corretta, i Paesi nordici si oppongono a una web tax che quindi non passerà mai. In Italia sulla carta esiste, è stata approvata un anno fa, ma è stata scritta così male dal legislatore, che punirebbe le imprese digitali italiane (l’ultima stima, di qualche giorno fa, firmata da Netcomm, parla di due miliardi di euro e 17 mila addetti in meno in tre anni) al punto che il ministero dell’Economia da mesi fa lo gnorri ed evita di fare i decreti attuativi. Nel frattempo la web tax, a legislazione vigente, l’ha fatta l’Agenzia delle Entrate.