Se amate Dan Flavin non andate alla Galleria Cardi ora. Lasciate passare qualche settimana, fate svanire la folla rumorosa e distratta dei grandi eventi, allontanate i vapori glamour della Fashion Week milanese. Però poi non perdetevi la mostra.
Le sculture luminose di Flavin esigono silenzio e spazio. Sì perché non sono solo tubi fluorescenti colorati assemblati in modo originale. Sono luce che si propaga nell’ambiente, lo modella e poi avvolge lo spettatore che entra nella morbida magia dei toni pastello, nelle algide geometrie delle luci bianche, nelle vellutate cromie un po’ retro dei rosa, dei gialli e dei blu.
È vero, Flavin negava che le sue installazioni avessero una dimensione trascendente, simbolica. Il neon, affermava, “È quello che è, non è nient’altro”. Ma se non c’è trascendenza nelle opere in sé, possiamo di certo affermare che quei tubi di luce convocano la dimensione trascendente che è in ognuno di noi, abbattono il rumore che ci circonda, scostano barriere, sollecitano un pensiero spirituale. Non è un caso se nel 1996 un sacerdote italiano, il reverendo Giulio Greco, invitò Dan Flavin a realizzare una installazione luminosa nella Chiesa Rossa di Milano progettata da Giovanni Muzio negli anni ’30.
Nella sala al piano terra della Galleria Cardi si trovano installazioni monocromatiche bianche. Grandi geometrie e sequenze di unità lineari elementari. Un grande quadrato luminoso appoggiato a un angolo è una invitante soglia misteriosa. Di fronte, opere basse giustappongono linee di luce orizzontale in fuga. Lo spazio è vasto, il bianco avvolge, quasi un bagno purificatore prima dell’ascesa al piano superiore.
Qui l’ambiente si restringe, i colori si moltiplicano senza creare dissonanze. Un’armonia calda riempie la sala. Al movimento delle linee seriali diagonali di una parete si contrappone la staticità delle linee orizzontali della parete difronte.
Più fredde, con i rossi e i verdi complementari, ma sempre intensamente coinvolgenti, le due opere presentate nella terza e ultima sala della galleria.