Non capita spesso di uscire da una mostra con la sensazione di avere ricevuto più di quanto ci si aspettava. Accade con l’esposizione che Palazzo Reale a Milano dedica a Carlo Carrà.
Percorrendo le sale che accolgono oltre centotrenta opere, non solo si ha una visione completa e approfondita del percorso artistico del pittore – piemontese di nascita e milanese di adozione – ma si gusta anche il sapore frizzante del tempo.
Il periodo che va dai primi del Novecento agli anni Sessanta è davvero intenso per l’arte italiana e Carrà vive da protagonista avanguardie storiche, ritorni all’ordine, contaminazioni, ma anche cenacoli dove pittori, scultori, poeti, critici d’arte si riuniscono per parlare di poesia, arte, filosofia magari intorno a un minestrone consumato tradizionalmente a mezzanotte o sfidandosi a bocce sotto il sole della Versilia…
Durante la sua carriera, Carrà respira in Italia, Francia e Inghilterra i grandi movimenti artistici – impressionismo, divisionismo, fauvismo, espressionismo, cubismo, futurismo, metafisica, astrattismo, dadaismo, surrealismo – con il carattere del grande artista che tutto sperimenta e interpreta, elaborando ogni volta tratti originali, fecondi che tendono sempre verso un oltre e sfociano poi nello stile largo e personalissimo che spalanca la sua maturità.
Carrà inizia l’attività artistica come decoratore, ma l’ingresso all’Accademia di Brera nel 1906 segna il definitivo passaggio alla pittura.
Nella mostra allestita a Palazzo Reale si parte dalle prime opere divisioniste – tra cui Uscita da teatro, 1909 – che precedono la sua partecipazione alla stagione del primo Futurismo, vissuto insieme a Umberto Boccioni, Luigi Russolo, Gino Severini sotto l’ala protettrice di Filippo Tommaso Marinetti. In mostra testimoniano questo periodo Ciò che mi ha detto il tram, 1911, Il cavaliere rosso, 1913 e interessanti opere grafiche realizzate con inchiostro su carta.
Il distacco dal Futurismo avviene nel 1916. L’incontro con Giorgio de Chirico e Alberto Savinio lo traghetta nella Metafisica. Nascono allora le architetture silenziose, i quadri con manichini, scatole, bottiglie, squadre come in La Musa metafisica, 1917.
Dal 1918 lo studio di Giotto e degli artisti del Quattrocento toscano porta Carrà a una nuova stagione. Cambia radicalmente la sua visione del reale, la rappresentazione della natura diventa mitica. Il pino sul mare, 1921 segna il punto di discontinuità da tutto quanto fatto in precedenza.
In questo periodo si consolida un aspetto fondamentale della pittura di Carrà, l’attenta costruzione del quadro ottenuta attraverso il rapporto tra colore e forma – che è rapporto tra intensità ed espansione – e spazialità che non è la prospettiva e non ha origini visive, ma è il poetico rapporto tra le forme.
Pur attraverso rappresentazioni figurative Carrà supera le sensazioni fisiche della realtà e porta a una trascendenza plastica della pittura.
Gli anni seguenti sono quelli della rivista Valori Plastici (alla quale Carrà collabora con suoi scritti) che promuove il “ritorno all’ordine”, ossia la rivalutazione della tradizione classica, della figurazione, l’allontanamento dall’astrattismo e dalle avanguardie estreme. Questi anni portano Carrà ad un ulteriore approfondimento della sua poetica. La natura nei suoi quadri si esprime per masse solide, definite, ma non sai mai quanto realistiche o mentali.
“Il paesaggio va oltre il paesaggio; l’ordine che regna è composizione di sentimenti primi” dice Roberto Longhi, storico dell’arte, amico ed estimatore di Carrà.
Il riferimento che affiora prepotente nella coscienza di Carrà è quello dei “solidificatori dell’impressionismo”: Seurat e Cézanne.
Il Sesia, 1924; La Crevola, 1924; Varallo vecchia, 1924; Sera sul lago, 1924 e poi L’attesa, 1926; Il veliero, 1927; Capanni al mare, 1927; Chiesa di Forte dei Marmi, 1928… sono opere straordinariamente intense, degli anni in cui lo stile del pittore, come mai prima, aderisce morbido al suo sentire profondo.
A seguire, negli anni Trenta, le forme si consolidano anche nei corpi. Le figure sono statuarie, imponenti, meditative pur nei gesti comuni: mentre si asciugano al sole (Estate, 1930), si bagnano in un mare spesso, opaco, solido, quasi impenetrabile (I nuotatori, 1930-1932), giocano al pallone (Partita di calcio, 1934).
Gli anni Venti e Trenta accompagnano un artista ormai maturo nello stile, che ha “visto” molto nella sua carriera e ha restituito sempre in modo originale e moderno. Carlo Carrà continuerà ancora a lungo a dipingere consolidando nella rappresentazione personalissima della natura che lo circonda la sua poetica visione del mondo.
Preziosa aggiunta alla mostra è il documentario cinematografico inedito del 1952 che racconta la vita di Carrà con testi di Roberto Longhi e regia di Piero Portalupi. Il filmato andò bruciato, ma recentemente ne è stata ritrovata una copia presso la Cineteca di Roma e, dopo accurato restauro, è ora visibile a Palazzo Reale.