La vicenda di Rami e Adam, i due ragazzini nati in Italia da genitori stranieri e coinvolti nel drammatico sequestro del bus scolastico a San Donato Milanese, ha riportato da alcuni giorni al centro del dibattito il tema della cittadinanza per i cosiddetti migranti di seconda generazione.
Se si osserva la questione con un minimo di lucidità, è davvero difficile comprendere perché, secondo molti, i bambini e i ragazzi nati in Italia non possano essere cittadini italiani. Ma debbano, tutt’ al più, sperare di ottenere la cittadinanza in quello che è a tutti gli effetti il loro paese richiedendola (e non ottenendola automaticamente, come molti credono) al compimento del 18esimo anno di età.
Sì, abbiamo scritto il loro paese: non c’è altro modo infatti per definire il posto in cui si nasce, di cui si parla la lingua fin dai primissimi anni di età, tanto da dimenticare spesso la lingua dei genitori. Il paese in cui si frequentano le scuole, si praticano sport e volontariato, di cui si conoscono leggi e consuetudini, in cui si costruiscono le relazioni che informeranno una vita intera. Un paese da cui, spesso, non ci si è mai mossi, nemmeno per le vacanze estive.
Il 15% dei nuovi nati in Italia è figlio di genitori stranieri
Ricordiamo che, secondo i dati ISTAT, circa il 15% dei nuovi nati in Italia nasce da genitori stranieri, con picchi di oltre il 25% in alcune zone dell’Emilia-Romagna, della Toscana e della Lombardia. Lasciare in un vero e proprio limbo giuridico più di un milione di ragazzi, a ben vedere, non sembra quindi una strategia lungimirante.
Uno status quo che tra l’altro non comporta alcun vantaggio per chi già possiede la cittadinanza, sia esso figlio di cittadini italiani o straniero che l’ha acquisita, faticosamente, dopo almeno dieci anni di residenza in Italia e dopo iter burocratici sfinenti, e spesso umilianti. Percorsi che l’ultima legge in materia di immigrazione (c.d. Decreto Immigrazione e Sicurezza, convertito in legge il 29 novembre), intervenendo anche sulla partita della cittadinanza, ha reso ancora più lunghi e complessi.
Più cittadini non significa meno diritti
Aumentare il numero di cittadini, infatti, non lede la posizione di chi lo è già, né pregiudica il godimento di diritti o la possibilità di usufruire, ad esempio, di servizi sanitari, sociali, educativi, che sono erogati sulla base di altri criteri (residenza, contribuzione fiscale, o semplice presenza sul territorio quando si tratti di servizi essenziali per l’individuo e la tutela della comunità, come la salute). Certo, più persone potrebbero accedere a concorsi pubblici, e tentare una carriera universitaria, o nelle forze armate. Difficile però credere che sia questo il rischio paventato da chi da anni si oppone in modo scomposto, quando non apertamente aggressivo, a una legge sullo ius soli, perfino nella forma mitigata del cosiddetto ius culturae o ius soli temperato, o da chi troppo timidamente lascia cadere le opportunità che ciclicamente si aprono per rimetterla al centro del dibattito politico.
Il rischio di creare nuove fratture sociali
Sono invece piuttosto evidenti i rischi che protrarre a lungo questa situazione potrà comportare per la nostra società, creando pericolose fratture sociali.
Andando avanti così infatti non si fa che umiliare, perché di questo si tratta, chi sul nostro paese sta facendo un gigantesco investimento personale, dopo essersi lasciato un’intera vita alle spalle nel proprio Paese di origine, con non pochi traumi e ferite. Non si promuove il protagonismo sociale delle nuove generazioni, ma al contrario si invia costantemente a giovanissimi e adolescenti un messaggio di esclusione, di non-parità, di subalternità rispetto ai loro coetanei, con cui condividono tutto tranne il possesso di un passaporto.In altre parole si alimenta un senso generale di rifiuto e di estraneità, che non produrrà nulla di buono per il paese e per la coesione di cui ogni collettività ha bisogno per crescere in modo armonioso e per contenere il rischio di estremismi e radicalizzazioni di cui purtroppo tanti giovani rischiano di essere preda.
Una condizione necessaria ma non sufficiente
Certo, concedere la cittadinanza non basta: in nome del benessere e della sicurezza di tutti, bisogna lottare contro la segregazione economica e abitativa, contro la dispersione scolastica e la povertà educativa. Contro la diseguaglianza, in una parola. Ma farlo insieme ai propri cittadini, e non con soggiornanti in attesa dell’ennesimo rinnovo di un permesso, certamente garantirebbe risultati migliori a qualunque Governo si lanci nell’impresa.
Il dibattito sullo ius soli temperato
Si sta molto parlando, in questi giorni, della legge sullo ius soli, che era stata presentata nella scorsa legislatura e che, dopo l’approvazione della Camera, si è arenata al Senato. Non era una legge perfetta, ma aveva in sé molti aspetti positivi.
Prima di tutto il tentativo di inserire il percorso di scolarizzazione compiuto dal minore tra i requisiti per avere diritto alla cittadinanza (il cosiddetto ius culturae, che finalmente svincolava la possibilità del minore di accedere alla cittadinanza dal percorso dei suoi genitori). In seconda battuta lo sforzo di bilanciare lo ius soli puro - forse davvero inaccettabile per troppi e in parte estraneo alla cultura giuridica e all’esperienza storica europea - con l’aggiunta di alcuni requisiti (senz’altro perfettibili, come la presenza in Italia di almeno uno dei genitori da almeno 5 anni, reddito minimo e idoneità alloggiativa) che non garantivano l’automatismo tout court della cittadinanza per nascita.
Insomma, almeno si tentava di dare una risposta. Prima di tutto ai ragazzi di seconda generazione nati in Italia. Una di loro, in una delle tante interviste sul tema rilasciate nel 2017 nel corso del dibattito sulla proposta di legge raccontava: “Fare il permesso di soggiorno, doverlo rinnovare ogni due anni, la trafila, le impronte digitali…tutto questo ha avuto un impatto pesante sulla mia identità. Sono nata qui, ma sono straniera. Se non lo vivi sulla tua pelle, non puoi capire cosa ti lascia dentro”.
Poi, ai tanti italiani che continuano a chiedersi come sia possibile che l’Italia, paese fondatore dell’Unione Europea e membro del G7, anche da questo punto di vista resti indietro anni luce rispetto agli altri paesi, vicini o lontani. Sono moltissimi gli stati che riconoscono la cittadinanza per nascita nel paese, in varie forme (cioè con ius soli puro, oppure temperato da alcuni criteri): per citarne solo alcuni, gli Stati Uniti, il Canada, la Germania, l’Irlanda, la Svezia, la Francia, il Belgio, l’Inghilterra, l’Olanda, il Lussemburgo. Non esattamente fanalini di coda in termini di ricchezza pro-capite e sviluppo economico e sociale.
Di cosa ha paura la classe politica italiana?
È chiaro che si tratta di una questione squisitamente identitaria, “di pancia”, e quindi facilmente strumentalizzabile e orientabile a fini elettorali, forse come poche altre. E di strumentalizzazione stiamo appunto parlando: nell’epoca dei muri e della chiusura identitaria, la richiesta allargare la platea dei cittadini è facilmente rappresentabile agli occhi dell’opinione pubblica come un’inaccettabile provocazione. La questione di chi decide le forme di appartenenza a una comunità sociale e politica è delicata, com’è ovvio che sia. Ma sarebbe interessante che chi si oppone a questa legge, soprattutto quando afferma che la cittadinanza “va meritata”, ci spiegasse che cosa ci garantisce che chi nasce da genitori italiani se la meriti, e che chi invece nasce da genitori senegalesi, marocchini o cinesi, no.
Nel pauroso decadimento della qualità dell’azione politica e del dibattito pubblico a cui assistiamo ogni giorno, la cittadinanza, da base per la partecipazione alla vita della collettività e di godimento di diritti sociali, civili e politici, è diventata merce di scambio, forma di ricatto, concessione del potente di turno. Non è un bel segnale, né per chi la desidera, né per chi già la possiede e vorrebbe esercitarla nelle forme previste dalla Costituzione, in una democrazia compiuta e matura.