È uscito “Fear Inoculum”, ultima fatica dei Tool, band metal prog statunitense assente dal mercato da tredici anni. Il tempo, per quanto riguarda i Tool, è un aspetto primario da considerare nel momento in cui ci si infila le cuffie per ascoltare questa loro ultima creatura.
Questo perché i Tool si impongono nel mercato con un regolare e affascinantissimo anacronismo. Sembrano farlo apposta, fatto che li rende anche particolarmente simpatici: esordiscono nel 1993 con “Undertow”, un disco di rock alternativo mentre nel mondo ancora si deve esaurire la scarica grunge di “Nevermind” dei Nirvana, che nel frattempo stanno facendo uscire “In Utero” prima di sciogliersi nel ’94 dopo la morte di Kurt Cobain.
Non è un disco per chi strimpella in spiaggia
E ancora oggi è così, “Fear Inoculum” ha le sembianze di un castello medievale in piena Times Square, con quei mattoni pesanti, dieci in tutto, sei dei quali superano in scioltezza i dieci minuti buoni, roba da far annodare il cappio a qualsiasi discografico. Ma soprattutto i Tool, forti di questo loro sanissimo menefreghismo, in un’epoca di singoli, di rincorse all’ultimo stream, si ripresentano in scena con un’opera totale, una fortificazione che non può non rappresentare per l’ascoltatore un’esperienza da sorseggiare per intero, senza la possibilità di fermarsi.
Non saranno 84 minuti facilissimi, questo bisogna dirlo, bisogna avere l’orecchio ben allenato per apprezzare il diabolico piano di Maynard James Keenan e compagni, una roba che riesce ad essere parallelamente folle e illuminante, vintage e avanguardista, devastante e rilassante, ad ogni modo psichedelica, visionaria. Inutile mentire anche sul fatto che finiti quei famosi 84 minuti, poi ci si sente quasi in imbarazzo: “Davvero me li sono mangiati in un sol boccone così? Davvero mi è piaciuto? E cosa vuol dire il fatto che mi sia piaciuto? Come mi colloco nella società dopo una tale esperienza?”
Perché, diciamocelo, non è un album per chi ama le strimpellate in spiaggia a ferragosto e non vuoi nemmeno sapere di aver condiviso lo stesso piacere con chissà quale nerd rinchiuso in una cameretta puzzolente dispersa nei meandri dell’entroterra statunitense.
Un manifesto che vibra
“Tu non sei in quel modo” ti dici, ma poi pensi che forse anche questo potrebbe rappresentare una nuova frontiera. Album come quello dei Tool non li registra più nessuno, non a certi livelli perlomeno, e rifletti sul fatto che la genialità del disco forse sta proprio nella demolizione della struttura classica del brano, nell’utilizzo della voce giusto come linea guida, semplice comune denominatore, che suoni tribali, tempi dispari che evocano quasi la battitura ritmica orientale e basso travolgente ti offrono una visione della realtà attraverso un caleidoscopio quasi mistico.
Non ti dicono come vedono il mondo, non te lo raccontano, te lo fanno vibrare dentro. Un manifesto pienamente rappresentato da “Pneuma”, seconda traccia dell’album e capitolo di questa saga decisamente più illuminato, più Tool.
Alla fine il sapore che resta in bocca è quello del conforto, già perché risulta confortante pensare che esistano ancora realtà del genere, che trasformano in coriandoli le regole del disco perfettamente commerciale, che ai concerti pregano di evitare foto e video per non rovinare la costruzione dello show, della narrazione, della drammaturgia; che decidono di andare per la loro strada, anche se indecifrabile, anche se complessa nella sinfonia austera che offrono.
In pochi, anche ad altissimi livelli, sono capaci di tanto, specie armeggiando un sound così ostico come quello metal. Ci sono mancati in questi tredici anni? Un po', chiaro, ma niente di drammatico, era più la curiosità di capire cosa stesse bollendo in pentola. Poi esce il disco e l’unica cosa che ti viene da risponderti è “Ah ok. Bene così. Ci vediamo alla prossima”, e che quella prossima non sia tra 2/3 anni, che ancora dovremo comprendere fino in fondo quest’ultimo disco, fate pure con comodo amici Tool, noi siamo sempre qui.