Lo scorso 9 novembre è stato celebrato il trentennale dell’abbattimento del muro di Berlino, evento considerato a ragione uno spartiacque della storia recente del mondo. Il conseguente collasso dell’equilibrio geopolitico basato su due blocchi che aveva caratterizzato il dopoguerra sembrò aprire orizzonti di pace e di progresso basati sull’egemonia della democrazia liberale e dell’economia di mercato.
Qualcuno parlò, improvvidamente, di “fine della storia”, quando, a posteriori, sarebbe stato più corretto parlare di “risveglio della storia” dopo quaranta anni in cui aveva sonnecchiato.
Per l’Europa la caduta del muro e del blocco sovietico favorì un’accelerazione del processo di integrazione. La riunificazione della Germania fu infatti vista con preoccupazione dalle altre cancellerie, compresa quella italiana, ancora testimoni delle scorie del novecento. È nota la battuta di Andreotti: “amo talmente la Germania che preferisco averne due”. A fronte della risorgenza di questo peso massimo all’interno del continente, si ritenne così di contenerne le spinte egemoniche accelerando il processo di integrazione europea. L’esito di questo progetto fu segnato dalla firma nel 1992 del Trattato di Maastricht.
Il Trattato fu il risultato di un compromesso, come spesso avviene. Le spinte federaliste e quelle per una difesa e una politica estera comune, all’epoca appoggiate anche dalla Germania, furono fortemente ridimensionate su pressione del Regno Unito, dell’Olanda e dei paesi scandinavi. Di una politica fiscale comune, poi, neanche si faceva cenno. Il budget comunitario fu portato dall’1,20% all’1,37% del PIL e la bizzarria di quest’ultima percentuale lascia intendere quanto siano stati duri i relativi negoziati.
La futura Unione europea si andò così caratterizzando soprattutto sotto il profilo dell’integrazione economica e finanziaria, dando vita a un mercato comune in cui c’è piena libertà di circolazione delle merci, dei servizi, dei capitali e delle prestazioni lavorative e che sarebbe stato rafforzato dalla creazione di una banca centrale e di una moneta comune.
La competizione prevale sulla solidarietà
Secondo lo spirito del tempo, le regole di funzionamento del mercato si ispirarono a una rigida ortodossia delle libera concorrenza, la quale, fra l’altro, escludeva in modo rigoroso qualsiasi possibilità di un intervento degli Stati a favore delle proprie imprese. In definitiva, veniva privilegiata la competizione a scapito della solidarietà.
Un sistema simile può funzionare efficacemente senza avvantaggiare costantemente qualcuno a danno di altri solo se vi è una sostanziale parità di condizioni di partenza, soprattutto in termini di produttività e di livello di indebitamento. Sotto questi profili, alcuni Paesi, come l’Italia, si trovavano in una posizione di debolezza relativa rispetto ad altri, come la Germania.
Purtroppo, nel progetto europeo che si andò definendo erano irrisori gli strumenti volti a favorire una convergenza delle diverse economie e l’onere dell’aggiustamento fu lasciato in carico ai singoli paesi. Come avremmo sperimentato negli anni a seguire questo aggiustamento volto a un sia pur parziale recupero della produttività potè aver luogo, in assenza dello strumento del cambio, solo attraverso una cosiddetta “svalutazione interna”, vale a dire attraverso politiche di contenimento delle spese e delle retribuzioni.
Ma il vero fattore destabilizzante, che inizialmente non era stato ben ponderato, fu la decisione di istituire la libera circolazione dei capitali non solo intraeuropea ma anche con stati terzi. Improvvisamente, senza che ce ne rendessimo pienamente conto, ci trovammo in mare aperto, alla mercé della speculazione internazionale.
Gli officianti del rito liberista spiegarono che in questo modo si sarebbe assicurata l’ottimale allocazione delle risorse finanziarie di cui, nel tempo, tutti avrebbero beneficiato. I fatti hanno dimostrato il contrario. Ma ancor più grave è stata la rappresentazione della “disciplina di mercato” come un necessario, ancorché doloroso, correttivo all’incapacità dei governi, condizionati dalle istanze dell’elettorato, di tenere i conti in ordine.
Una delegittimazione della democrazia
A posteriori, c’è da chiedersi come non sia apparso chiaro sin dall’inizio che il sostegno a questa rappresentazione della realtà, che peraltro enumera ancora oggi molti estimatori, comportava di fatto una delegittimazione del sistema democratico, del cui esito abbiamo oggi chiara testimonianza. All’epoca, assistemmo invece, fra il distratto e il compiaciuto, all’irruzione di un nuovo attore, il mercato finanziario internazionale, che muovendosi in incognito e senza alcuna legittimazione se non quella del profitto, era in grado di condizionare, conferendo o ritirando risorse finanziarie con un clic, la politica economica e sociale degli Stati.
L’Italia ebbe modo di accorgersene ben presto, mentre l’iter di ratifica del Trattato di Maastricht da parte degli allora dodici paesi della Comunità era ancora in corso. Solo due paesi (la Francia e la Danimarca) ritennero di sottoporre a referendum la questione (il Regno Unito lo propose inizialmente, per poi sospenderlo); gli altri Stati optarono per l’approvazione per via parlamentare. Nel giugno ‘92 il referendum danese bocciò di stretta misura il Trattato, per cui si rese necessario un processo affrettato di abbellimento che consentisse di riproporlo agli stessi danesi, che infatti l’approvarono l’anno seguente.
La scommessa di Soros
Dopo la bocciatura danese, tutti gli occhi erano puntati sul referendum francese, che si tenne il 20 settembre del ’92 e in cui i voti favorevoli prevalsero col solo 51,7%. Una vittoria del no in Francia avrebbe significato una battuta di arresto esiziale per il progetto europeo e proprio facendo leva su questa situazione di incertezza la speculazione internazionale colse un’occasione di guadagno. Poche settimane prima del referendum francese il finanziere George Soros vendette a termine allo scoperto (senza quindi possederle e scommettendo sul fatto che a scadenza avrebbe potuto comprarle a un prezzo inferiore a quello della vendita) lire italiane e sterline britanniche per un equivalente di diverse decine di miliardi di dollari.
La scommessa di Soros, che si basava su una valutazione di insostenibilità delle parità fissate alla fine degli anni ‘80 fra le diverse valute della Comunità, innescò un movimento ribassista che si autoalimentò, finché, dopo aver inutilmente dissanguato le riserve valutarie per difendere la lira, fummo costretti a svalutare la moneta del 30%. Seguì una manovra “lacrime e sangue” di 90.000 miliardi di lire e l’avvio di un processo di privatizzazione delle imprese pubbliche, dall’esito non sempre esaltante. Soros guadagnò invece più di un miliardo di dollari con questa operazione speculativa che all’epoca fece sensazione per la sua novità, ma che oggi sarebbe ritenuta normale routine nella dinamica dei mercati.
La svalutazione della lira italiana si accompagnò a quella delle valute di altri paesi: Regno Unito, Spagna, Portogallo, Finlandia, Svezia. La Germania si rifiutò di intervenire sui mercati a difesa di queste valute e per contenere la rivalutazione della propria,limitandosi al sostegno del franco francese, ritenendolo essenziale per la salvaguardia del progetto europeo. Di fatto, l’egemonia tedesca si riaffermò proprio all’interno dell’iniziativa volta a contenerla.
Le vicende del ’92 svelarono sin da subito i punti di debolezza del progetto di integrazione europea. A monte si pone la rinuncia iniziale a un sia pur graduale approccio federalista, rimarcata anche dal cambio del nome: “Unione” di Stati e non più “Comunità” di popoli. Il ripiegamento su un progetto, pur brillante e ambizioso, di mercato comune non è riuscito a scaldare i cuori e a suscitare entusiasmi nell’elettorato europeo.
Significherà pur qualcosa che i no abbiano prevalso anche nei successivi tre referendum su modifiche al Trattato, tenutisi in Francia, Olanda e Irlanda negli anni ’90, per tacere di quello più recente del Regno Unito. Come nel caso della Danimarca, dopo qualche modifica di facciata e dopo aver spiegato meglio ai votanti qual’era la risposta giusta, i referendum vennero riproposti, questa volta con successo. Poi, per tagliare la testa al toro, si decise che non si sarebbero più tenuti referendum sulle decisioni prese a Bruxelles.
La surrealtà del dibattito sul Mes
La distanza dei cittadini europei dai tecnicismi delle autorità europee trova conferma nel surreale dibattito italiano sui ritocchi apportati alla disciplina del cosiddetto fondo “salvastati”, operativo dal 2011 e già intervenuto a favore di cinque paesi senza che evidentemente ce ne accorgessimo. Dibattito che fa il paio con quello, altrettanto surreale, dei tedeschi sulla rapina dei loro risparmi che Draghi avrebbe orchestrato con le misure di “quantitative easing”.
Questa persistente tensione centripeta dei popoli europei verso la difesa della ridotta dello Stato riflette l’incompiutezza del progetto di integrazione politica e, specularmente, la sensazione diffusa fra la gente di non essere parte di questo progetto, di percepirlo distante, spesso ostile e comunque non in grado di fornire una protezione equiparabile a quella degli Stati di appartenenza.
Eppure, a guardar bene, il mutamento in corso del quadro geopolitico mondiale sembrebbe rendere obbligatoria la strada di una maggiore integrazione politica. Nel suo millenario pellegrinaggio verso ovest, il centro economico del mondo si va spostando nel pacifico e, di fronte alla prospettiva concreta di un duopolio militare, tecnologico ed economico da parte di Stati Uniti e Cina, i singoli Stati Europei, compresa la Germania, rischiano l’irrilevanza.
La strada verso un possibile rilancio
Fortunamente, tutte le problematiche di cui abbiamo parlato sinora sono note alle istituzioni e alle cancellerie europee che stanno cercando di mettere in piedi delle misure per rilanciare il progetto comunitario. Fra queste spicca l’avvio il prossimo anno di una Conferenza Intergovenativa volta ad apportare nel giro di due anni una serie di importanti modifiche al Trattato. È possibile individuare alcuni temi che verranno affrontati nella Conferenza.
Innanzitutto, vi è piena consapevolezza della necessità di accrescere il tasso di democraticità delle istituzioni europee, avvicinandole di più ai cittadini in modo che questi comincino a riconoscerle come proprie. Non sarà facile, ma il fatto che sia al primo posto dell’agenda fa ben sperare.
In secondo luogo, c’è l’esigenza di cominciare ad investire per un sistema di difesa autonoma dell’Unione. La NATO, di cui il presidente francese Macron ha recentemente dichiarato la “morte cerebrale”, nacque in contrapposizione al Patto di Varsavia e dopo il crollo del blocco sovietico è sopravvissuta senza che ne fosse chiarita la ragion d’essere. Oggi la funzione residua della Nato (cui non partecipa Israele, il maggiore alleato degli Stati Uniti) sembra essere quella di vigilare affinchè non abbia luogo la saldatura del continente euroasiatico (vera ossessione degli anglosassoni) attraverso un allentamento delle tensioni con la Russia. L’autonomia militare dell’Europa è un tema indigesto per l’opinione pubblica, ma sulla sua ineludibilità sembra esservi ampio consenso.
Sul piano tecnologico, è condivisa l’esigenza di contrastare, con il rafforzamento della funzione antitrust in seno alla Commissione, il monopolio dei giganti del web, tutti extraeuropei, e nel contempo recuperare il gap con Cina e Stati Uniti attraverso un piano di investimenti che potrebbe essere coordinato dalle Autorità europee, magari avvalendosi di eurobonds dedicati. Si inserisce in questo contesto il tema della privacy e della salvaguardia dei nostri dati che abbiamo sin qui con troppa leggerezza “regalato” ad aziende extraeuropee.
Un altro punto su cui vi è convergenza di opinioni riguarda la necessità di approntare un sistema di difesa delle nostre imprese dalle incursioni predatorie della finanza internazionale. Un primo passo, cui dovranno seguirne ben altri, è rappresentato dall’imposizione di limiti all’acquisizione di partecipazioni in società ritenute “strategiche” da parte di entità extraeuropee.
Un aspetto su cui – giustamente, secondo chi scrive - si sta molto insistendo è la valorizzazione della cultura europea, a cui è stato destinato uno specifico portafoglio della Commissione. I popoli europei, nonostante i tratti peculiari che sembrano distinguerli, sono in realtà accomunati da una stessa cultura di base forgiata da una storia millenaria. Se vogliamo che il processo di integrazione sia accompagnato dal consenso, è opportuno enfatizzare ciò che ci unisce e ci distingue dagli altri, cercando di traslare le attuali spinte “sovraniste” verso la costruzione dell’edificio europeo.
Infine, vi è il grande tema che sovrasta tutti gli altri e su cui si conta di mobilitare l’opinione pubblica europea: la lotta contro i cambiamenti climatici e l’inquinamento. Gli obiettivi sono ambiziosi e prefigurano un modello autonomo di modernità, su cui dovranno essere coinvolti soprattutto i giovani. La conseguente riconversione della nostra economia richiederà ingenti investimenti che l’Unione dovrà cooordinare e finanziare, possibilmente attraverso un accrescimento del bilancio comune e/o con l’emissione di green bonds comunitari che, ci piacerebbe immaginare, potrebbero essere acquistati anche dalla BCE.
L’ottimismo che trenta anni fa aveva accompagnato la caduta del muro è oggi sostituito dalla preoccupazione per le grandi sfide che siamo costretti ad affrontare. La Conferenza Intergovernativa nasce come una iniziativa della Francia e della Germania. Dispiace vedere che l’Italia non ha contribuito al suo avvio e che il dibattito sulle importanti tematiche che verranno trattate e che riguardano direttamente il nostro futuro è del tutto assente nel nostro paese.