Da qualche giorno un cartello con la scritta “Vietato lamentarsi” è comparso sulla porta del bilocale che Papa Francesco occupa a Santa Marta dall'indomani dell'elezione del 13 marzo 2013. Sulla targa si legge che "i trasgressori sono soggetti da una sindrome da vittimismo con conseguente abbassamento del tono dell’umore e della capacità di risolvere i problemi". E che "per dare il meglio di sé bisogna concentrarsi sulle proprie potenzialità e non sui propri limiti quindi: smettila di lamentarti e agisci per cambiare in meglio la tua vita".
Il cartello - spiega Andrea Tornielli sul quotidiano La Stampa - è un’invenzione dello psicologo e psicoterapeuta dal nome biblico Salvo Noè, autore di un libro intitolato “Smettila di lamentarti e agisci per cambiare in meglio la tua vita!” che prende le mosse da una constatazione precisa: uno degli sport più praticati non è il calcio, ma il lamento. E indica un percorso per rafforzare l’autostima ed evitare di cadere nel tranello del vittimismo. Un percorso utile anche per chi gestisce gruppi di lavoro, e indubbiamente questa è una delle mansioni che svolge (ovviamente al suo livello) il Vescovo di Roma, tanto che è lecito immaginare che l’invito del cartello il Papa lo intenda rivolto a se stesso e non come un monito che invita ad un obbedienza acritica alle sue indicazioni.
Ed infatti assai inopportune appaiono in questi giorni le dichiarazioni. solo in parte smentite dall’ex prefetto della Fede, il cardinale Muller, che ha definito inaccettabile il modo con il quale gli è stato comunicato che non sarebbe stato confermato nell'incarico. Per questo appare evidente che il Papa non pensava al porporato bavarese o ad altri oppositori delle sue riforme quando ha appeso quel cartello. O meglio: pensava probabilmente a se stesso alle prese con i bastoni che essi tentano di mettergli tra le ruote. Una difficoltà della quale dunque preferisce non lamentarsi.
Nessuna contrapposizione tra Parolin e Galantino
Alla vigilia di un nuovo processo penale destinato a riaprire vecchie ferite nella Curia, quello per il finanziamento improprio degli amministratori dell’ospedale Bambino Gesù all'appartamento in ristrutturazione dell'ex segretario di Stato Tarcisio Bertone, le vacanze di Papa Francesco a Santa Marta sembrano destinate a subire quasi ogni giorno il fastidio delle continue tempeste mediatiche. L'ultima riguarda la presunta contrapposizione tra Vaticano e Cei in tema di migranti. In realtà semplicemente sono state “utilizzate” in contrapposizione al segretario della Cei Nunzio Galantino alcune parole del cardinale segretario di Stato della Santa Sede, Pietro Parolin, secondo il quale “il discorso dell’ ‘Autiamoli a casa loro’ è un discorso valido, nel senso che dobbiamo aiutare veramente questi Paesi nello sviluppo, in modo tale che la migrazione non sia più una realtà forzata, ma sia libera. Che sia un diritto di tutti, ma sia fatta non per costrizione, perché non si trovano nel proprio Paese le possibilità di vivere e di crescere”. Invece non c’è nessuna contraddizione tra le posizioni di Galantino e Parolin.
Perché sono due i diritti complementari che la Chiesa italiana mette insieme nello slogan della sua campagna: “Liberi di restare, liberi di partire”. Il fatto che ci sia un’emergenza che non accenna a diminuire è, infatti, per il segretario di Stato Pietro Parolin, un segnale per capire che l’Europa deve trovare una risposta comune. “Mi pare che il Papa già varie volte ha sottolineato questa esigenza di far fronte comune - ha aggiunto Parolin intervenendo alla Camera alla presentazione di un libro su La Pira -. Ancora una volta l’appello è che tutti facciano la loro parte. Evidentemente questo fenomeno, che è un fenomeno molto urgente deve poter trovare una soluzione condivisa”. Nessuna obiezione dunque dal vaticano all’affermazione di Galantino riguardo al fatto che quella tra profughi e migranti economici è una distinzione "fuori posto" perché alimenta "una guerra tra poveri e le guerre tra poveri in genere servono soltanto ai furbi". "È come descrivere due tipi di povertà. È come fare la distinzione se uno preferisce morire impiccato o alla sedia elettrica".
Entrambi, Galantino e Parolin, sono in linea con Papa Francesco, ma a qualcuno “conviene” vederli in contrapposizione.
L’insegnamento di Dom Franzoni
E’ una storia vecchia quella della Chiesa che viene utilizzata dalla politica per i suoi fini. Proprio contro questa strumentalizzazione, all’epoca molto marcata, si era ribellato in effetti Dom Giovanni Franzoni, l’abate di San Paolo che nel 1974 venne ridotto allo stato laicale. E’ morto giovedì scorso, a 88 anni di età, e la sua vicenda fa riflettere. A Firenze aveva assorbito l’impronta di La Pira e padre Balducci, profeti e anticipatori del Concilio. Formatosi poi al Collegio Capranica e alla facoltà teologica di Sant’Anselmo all’Aventino, alla vigilia del Concilio era stato eletto abate di San Paolo perchè vi rappresentasse l’ordine benedettino del quale faceva parte. Padre conciliare, dunque, dopo il Vaticano II era entrato in conflitto con la Gerarchia ufficiale per il suo tentativo di portare a compimento le riforme che erano state varate. Un suo documento contro la proprietà privata (quella vaticana compresa) suscitò gli strali dell’allora vicario di Roma Ugo Poletti. Si trattava di una lettera pastorale intitolata “La terra è di Dio”, nella quale denunciava le speculazioni edilizie a Roma che sarebbero state sostenute, secondo la sua denuncia, anche da ambienti vaticani.
Era mezzogiorno del 14 giugno 1973, quando persone della “Comunità cattolica di san Paolo” iniziarono a distribuire il settimanale Com, contenente un inserto speciale: “Giovanni Battista Franzoni, abate e ordinario dell’Abbazia di S. Paolo fuori le Mura in Roma – La terra è di Dio, lettera pastorale”. La particolarità della distribuzione militante – allora del tutto normale – fu che, quella volta, essa avvenne ai “confini” tra Italia e Stato della Città del Vaticano, e precisamente di fronte al cancello, a lato del Sant’Uffizio, che delimita lo spiazzo antistante il nuovo palazzo delle udienze, comprendente anche l’aula del Sinodo. In quella sede, infatti, erano riuniti i vescovi italiani per la loro X assemblea generale. Terminati i lavori della mattinata, i presuli sciamavano per tornare nelle case religiose che li ospitavano; molti in macchina, ma diversi a piedi, e furono proprio alcuni di questi che si ritrovarono tra le mani la lettera. Tra un vescovo e l’altro, uscì dal cancello anche don Franzoni: vestito con l’abito monacale nero, croce pettorale di ferro, capelli completamente rasati, l’abate di san Paolo faceva qualche timido sorriso ai confratelli che, alcuni con aria amichevole, altri un po’ tesa, gli dicevano, sventolando la “lettera” appena ricevuta: “La leggerò, la leggerò”.
La rottura si consumò in modo definitivo l'anno successivo, all’epoca del referendum per il divorzio e Franzoni, sospeso a divinis per aver affermato di voler votare no all'abrogazione, lasciò l’ordine dei benedettini e l’abbazia di San Paolo della quale era abate, con dignità pari a quella di un vescovo, per fondare la Comunità di San Paolo in una fabbrica dismessa dell’Ostiense. Una espressione del dissenso cattolico sopravvissuta poi fino ad oggi.
In una recente intervista, Franzoni aveva parlato con commozione di un gesto compiuto da Paolo VI durante il Concilio, cioè davanti ai suoi occhi: “Era il 13 novembre del 1964, terza sessione del Vaticano II, alla fine della liturgia nella basilica di San Pietro il papa, si alzò dal trono, si tolse la tiara dal capo e la pose sulle ginocchia di Maximos IV, patriarca di Antiochia dei melchiti che aveva lanciato un appello per uno sforzo maggiore della Chiesa a fianco dei poveri. Con quel gesto Montini ha fatto sì che il papato si spogliasse del potere per aprirsi a una prospettiva di servizio. Non va dimenticato che il triregno era il simbolo del potere spirituale, sugli imperatori e sulle realtà celesti del pontefice. Dopo Paolo VI nessun Papa l’ha più indossato”. Era incapace di rancori Dom Franzoni che proprio per volere di Paolo VI, nell’agosto 1974 fu ridotto allo stato laicale, ricordano dalla Comunità di San Paolo. E visse con dolore quel provvedimento, tanto che per due anni non riuscì più a deglutire alcun cibo solido. Ormai settantenne, negli anni’90 si era sposato con una signora giapponese che si prendeva cura di lui con grande amore. Mentre l’ex abate guardava con speranza al pontificato di Bergoglio e alle riforme che il Papa “chiamato quasi dalla fine del mondo” sta avviando tra mille contrasti.
E il quotidiano della Cei, Avvenire, che in 40 anni mai aveva concesso la parola a Don Franzoni, ricorda oggi “la sua sempre rinnovata vita sociale e, nonostante tutto, ecclesiale”. “Arriva l’ora della pace: si chiudono gli occhi, morendo, ma per vedere tutto, e pienamente”, conclude Giovanni Gennari, suo amico per tutta la vita, che firma l’articolo