Da tempo vogliono farci credere, riuscendoci peraltro benissimo, che in questo nostro Paese ci sono almeno due emergenze: l’emergenza migranti e l’emergenza sicurezza, figlia più o meno legittima della prima. In realtà — e lo dicono i dati del Viminale, che ogni anno a metà agosto fa il punto sulla situazione della sicurezza pubblicando un rapporto, non quelli dei collettivi femministi o dei centri antiviolenza — l’unico vero allarme sicurezza in Italia, e purtroppo non solo in Italia, riguarda le donne e i bambini.
Infatti, mentre furti e rapine sono in netta diminuzione negli ultimi anni su tutto il territorio nazionale, nessun calo si registra nei femminicidi, che confermano il trend preoccupante di una donna ammazzata per mano di un uomo (il partner, l’ex partner o un familiare) ogni tre giorni. Del resto che una donna su tre sia vittima di violenza nel corso della vita, che il 65,2% degli episodi di violenza avvengano in presenza di minori, che più della metà delle donne vittime di femminicidio in Italia nel 2016 avesse denunciato, ce lo dicono fonti autorevoli come l’Onu (2013), l’European Union Agency for Fundamental right (2014), l’Istat (2015), che confermano come dichiarato dall’Oms che la violenza costituisce il maggior problema di salute pubblica a livello mondiale e l’abuso sui minori la principale causa di disturbo psicopatologico.
Eppure c’è chi questa violenza continua a negarla
Se ne è parlato a Trieste alcune settimane fa in un convegno che in collaborazione con l’ospedale pediatrico ha promosso il Centro Antiviolenza Goap in occasione dei suoi primi vent’anni di attività, vent’anni di benedizioni per le donne triestine, che in mezzo a tanti sgambetti e a tanto orrore hanno potuto contare su volti e mani amiche ma soprattutto capaci: solo nel 2017 il centro ha accolto 469 donne, 279 delle quali bussavano al Goap per la prima volta e il 70% delle quali con figli minori.
L’incontro era organizzato con il contributo del Dipartimento per le Pari Opportunità e il patrocinio del Comune, della Regione, dell’Università, dell’Azienda sanitaria e della Scuola Superiore della Magistratura e si proponeva di approfondire e indagare le resistenze emotive e socioculturali al riconoscimento della violenza agita contro donne, bambine e bambini. Questi ultimi sono sempre coinvolti, direttamente o indirettamente: secondo l’Istat 2/3 degli episodi di violenza sulle donne da parte del partner sono avvenuti in presenza di figli minori e a detta dell’Oms tra il 40 e il 60% dei mariti violenti è violento anche con i figli, senza che ciò sia rivelato. Solo il 26,4% dei bambini non ha subito nessuna forma di maltrattamento ed abuso: secondo il Global Status Report on Violence Prevention (Oms, 2014) e l’Istituto degli Innocenti di Firenze (2006) 1 su 4 è stato vittima di abuso fisico, 1 su 3 di abuso psicologico, mentre l’abuso sessuale riguarda 1 bambina su 5 e 1 bambino su 10.
Nonostante questi dati, tra l’altro parziali perché come ha ricordato la psicologa del Goap Mariagrazia Apollonio il rapporto tra abusi sessuali emersi e sommersi è di 1 a 100, c’è ancora chi la violenza, dopo aver tentato di legittimarla, la nega. Perché? si è chiesta Patrizia Romito, docente all’Università di Trieste e una delle massime esperte di violenza di genere. Nel rispondere non possiamo non tener conto del contesto in cui ci troviamo, un contesto in cui la dominazione maschile sulle donne/mogli è stata a lungo socialmente legittima: non dimentichiamo che in Italia il delitto d’onore e il matrimonio riparatore sono stati abrogati nel 1981 e fino al 1996, praticamente ieri, lo stupro era considerato un delitto contro la morale anziché contro la persona, mentre secondo le lobby filo-pedofile, e in particolare secondo lo psichiatra Richard Gardner, l’uso sessuale di bambini e bambine da parte di uomini adulti è del tutto legittimo, anzi benefico.
Quando tutto ciò non è più accettabile si passa alla negazione con tecniche piuttosto efficaci come l’eufemizzazione (si parla di conflitto invece che di violenza), la distinzione tra la violenza che avveniva durante la vita di coppia e il femminicidio che si consuma dopo la separazione e che viene etichettato come un raptus, come se fosse un fulmine a ciel sereno, la colpevolizzazione della vittima, considerata responsabile di ciò che subisce perché incapace di tirarsi fuori, la psicologizzazione, che tende a dare alla violenza una risposta psicosociale anziché giudiziaria, ad esempio proponendo la mediazione, che invece è vietata dalla Convenzione di Istanbul. Fino ad arrivare alla Sindrome di Alienazione Parentale, che teorizza una madre manipolatrice per impedire che il figlio possa vedere il padre, rifiutato dal figlio perché abusante.
E l’abuso, come sostiene lo psicoterapeuta Claudio Foti, del Centro Studi Hansel e Gretel di Torino, è muto, non lascia tracce: ciò si verifica quando chi circonda l’abuso diventa emotivamente e cognitivamente sordo e cieco, ma in realtà l’abuso parla e nessuno degli adulti che stanno intorno a un bambino abusato e che dicono che non hanno sentito può sottrarsi alla propria responsabilità dicendo che non si poteva sapere e non si poteva ascoltare.
Le responsabilità dei media
Una responsabilità a cui nemmeno noi giornalisti possiamo sottrarci. Perché nonostante la perdita di credibilità dell’informazione i messaggi mediatici che produciamo sono ancora importanti nell’influenzare la cultura dominante e le opinioni dei cittadini e dobbiamo esserne consapevoli.
Noi neghiamo la violenza — e lo abbiamo scritto nel Manifesto di Venezia — ogni volta che raccontiamo un femminicidio parlando di raptus o di troppo amore, ogni volta che indugiamo in particolari sensazionalistici e superflui, ogni volta che forniamo attenuanti all’omicida, ogni volta che ci uniformiamo all’agenda dominante e diamo spazio a false emergenze come quella dei migranti togliendolo alle donne e ai bambini, ogni volta che accettiamo o scegliamo di non dare voce alle donne che ce l’hanno fatta perché non tira, ogni volta che offriamo il microfono ai colpevoli e ai loro avvocati riducendo ancora una volta al silenzio chi è già stato silenziato dalla vita.
Ogni volta che facciamo credere che lo stupratore è “altro” da noi, ovvero straniero/immigrato, mentre tra gli stupri denunciati (che secondo l’Istat sono solo il 15% di quelli subiti) lo stupratore è straniero nell’8% dei casi (Ministero dell’Interno, 2008), sebbene nei casi pubblicati da giornali “progressisti” risulti esserlo nel 50% dei casi (ricerca in corso della prof. Chiara Volpato, Università di Milano Bicocca). Ogni volta che chiudiamo un occhio per amor di patria: in base all’analisi di 72 casi di donne uccise da un partner o ex nel 2012 su giornali italiani “progressisti” sono stati pubblicati 11 casi su 12, quando l’assassino è straniero; 1 caso su 4, quando l’assassino è italiano; 9 casi su 10, quando la vittima e l’assassino sono stranieri; 1 caso su 6, quando una donna straniera è uccisa da un uomo italiano (Gius e Lalli, 2014).
Ogni volta che ci ricordiamo di questa tragedia solo quando è ormai troppo tardi. Ogni volta che pensiamo che tanto non possiamo farci nulla. Come affermò Bianca Guidetti Serra, ricordata da Patrizia Romito, «non bisogna arrendersi, rinunciare al cambiamento, per quanto parziale e mai definitivo e salvifico», perché «anche un piccolo granello di sabbia, unendosi agli altri, può creare degli argini a correnti pericolose, può inceppare ingranaggi e meccanismi perversi».
Al Centro Antiviolenza Goap di Trieste ne sono talmente convinte che oltre a farsi carico ogni giorno del dolore e della fatica di vivere di centinaia di donne hanno organizzato un altro appuntamento formativo per il prossimo 30 novembre: si parlerà di mezzi e risorse a tutela delle vittime della violenza di genere. Perché neanche nell’inferno quotidiano di tante esistenze si può abdicare alla speranza.