Le conseguenze del coronavirus sulla delocalizzazione

Le conseguenze del coronavirus sulla delocalizzazione

Annullati ordini per miliardi di euro in Bangladesh, in crisi la catena di approvvigionamento. Il Covid-19 ha un impatto devastante su economie molto lontane ma che dipendono strettamente dalla nostra
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© Aniruddhasingh Dinore / The Times Of India / The Times of India via AFP  - La lavorazione del cotone in India

Per il Bangladesh, secondo grande produttore al mondo dopo la Cina di capi di abbigliamento, la diffusione del Coronavirus sta determinando una catastrofe economica e sociale. Non a causa del moltiplicarsi dei contagi ma per la caduta degli ordini di lavoro da parte delle aziende committenti che avrebbe provocato finora quasi tre miliardi di euro e migliaia di posti di lavoro persi. L'industria tessile dà lavoro a oltre 4 milioni di persone, in maggioranza donne. I gruppi industriali del Bangladesh stimano che oltre la metà della forza lavoro è già stata licenziata .

In India invece scorte di cotone si stanno inutilmente accumulando provocando il crollo del prezzo che scenderà al minimo degli ultimi 15 anni. Si prevede che l'impatto sulla filiera del cotone indiano sarà gravissimo. Scenari simili, anche se con numeri leggermente inferiori si stanno prospettando in Vietnam e Sri Lanka, Paesi che negli ultimi decenni sono diventati centri di produzione globali per l’abbigliamento da quando la Cina ha delocalizzato l'industria manifatturiera nel sud e nel sud-est asiatico per contenere ulteriormente i costi della manodopera.

Sono passati sette anni dalla tragedia del Rana Plaza, il grande centro tessile a Dacca, nel cui crollo morirono oltre 1.138 persone e due anni dall’“Accord on Fire and Building Safety”, siglato da più di 200 marchi della moda, firmato il 30 Aprile del 2018, per la tutela dei lavoratori e la messa in sicurezza delle fabbriche.

Dopo quella tragedia, improvvisamente ci siamo accorti che acquistare un capo di abbigliamento implicava tante altre cose e che molti dei capi che indossavamo erano realizzati da donne e bambini che lavoravano in condizioni per noi inimmaginabili.

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© Mehedi Hasan / NurPhoto / NurPhoto via AFP
La lavorazione del cotone in Bangladesh

Grande fu il clamore dal quale nacque il movimento Fashion Revolution, movimento internazionale, il cui slogan “Chi ha cucito i miei vestiti” da allora è diventato simbolo dei diritti dei lavoratori di tutti i paesi in via di sviluppo. Fashion Revolution è nata con l’obiettivo di puntare i riflettori sulla filiera di approvvigionamento, sulle condizioni dei lavoratori, sui costi reali della moda e sul suo impatto sulle persone e sull’ambiente.

È ricorsa in Aprile, anche quest’anno, la settimana dedicata ad informare e rendere più partecipi i consumatori sui reali “costi” del sistema moda, organizzata da questo movimento internazionale. La ricorrenza di quest’anno è coincisa, ironia della sorte, con uno dei momenti più difficili e drammatici che il sistema moda ed in particolare le filiere tessili delocalizzate abbiano mai affrontato.

La chiusura dei negozi, in gran parte del mondo, ha spinto molti marchi della moda a posticipare o ad annullare gli ordini delle merci per la primavera-estate, rinviando o annullando i pagamenti ai partner della catena di fornitura provocando licenziamenti e cessazioni di attività in tutto il sud est asiatico.

Gli ordini annullati, spesso solo con una formale mail, che non lascia nemmeno spazio per negoziare o discutere, possono costringere le fabbriche in Paesi come il Bangladesh a lasciare improvvisamente senza salario moltissimi lavoratori e poi successivamente a chiudere. Queste fabbriche, infatti, operano con margini molto stretti e senza nessuna rete di sicurezza sociale.

International Apparel Federation, associazione commerciale internazionale, il cui core business è l’abbigliamento, dall’ approvvigionamento alla distribuzione, ha dichiarato che “la crisi dovuta della pandemia Covid-19 è uno shock senza precedenti per questa catena di fornitura e crea un drammatico effetto domino di perdite”.

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© ISHARA S. KODIKARA / AFP
 
Un'industria tessile nello Sri Lanka

Gli effetti di questa crisi dei consumi aumenteranno rapidamente, con conseguenze sia per il sostentamento delle persone che per la loro immediata salute fisica considerato che in Bangladesh, come negli altri paesi dove il costo della manodopera è bassissimo, (Cambogia, Vietnam, Sri Lanka ecc.) la maggior parte dei lavoratori non riceve un congedo per malattia retribuito e non può accedere alle cure mediche di base.

Se il Covid 19 dovesse diffondersi maggiormente, nei prossimi mesi il Bangladesh si troverebbe con una popolazione già estremamente impoverita e assolutamente non in grado di affrontare un’emergenza sanitaria così devastante.

Le grandi e le piccole aziende della moda tutte in grande difficoltà per il lockdown, (parte delle collezioni della primavera sono state sigillate, intatte, dentro ai negozi chiusi e tutti i pagamenti delle merci, per effetto domino, sono saltati) si stanno prodigando con donazioni e conversioni produttive, ma soprattutto stanno sostenendo i propri dipendenti con risorse proprie e sfruttando il nostro sistema di “welfare”, che di questi tempi fa la grande differenza, garantendo a tutti i cittadini almeno, la fruizione dei servizi sociali indispensabili.

Pochi si sono preoccupati e fatti carico anche della problematica dei partner della catena di fornitura poiché l’unica soluzione per attenuare gli effetti della crisi in questi paesi sarebbe stato mantenere i contratti e acquistare i prodotti che si sono già ordinati e che in questo momento sono già imballati e pronti per essere spediti. Solo un limitatissimo numero di marchi, infatti ha reso prioritario mantenere e pagare gli ordini esistenti cercando di supportare tutti nella catena del valore.

La pandemia, ci sta dimostrando per la prima volta, cosa succede con eventi catastrofici globali e, certamente questa esperienza potrebbe aiutarci a definire in modo diverso i prossimi accordi commerciali, per una protezione futura di tutte le parti, anche quelle più vulnerabili, poiché mantenere integre le filiere produttive è certamente nell’ interesse di tutti.

La piattaforma Better Buying, per esempio, che si occupa di prevenire i rischi che i fornitori devono affrontare, favorendo così condizioni di lavoro più sicure, propone un modello di protezione inclusiva e chiede con urgenza alle organizzazioni multilaterali e ai governi nazionali di intervenire per realizzare rapidamente un piano di sostegno a livello industriale per le parti più vulnerabili dell'industria globale dell'abbigliamento.

Anche la IAF (International Apparel Federation) invita a mettere in atto con urgenza iniziative di solidarietà nella catena di fornitura emostra di comprendere bene le ragioni per cui le aziende stanno adeguando gli ordini, ma pensa anche che ci debba essere un altro modo per affrontare il problema. Un modo che implichi responsabilità, collaborazione e cooperazione di tutti gli stakeholder dell’intera catena di approvvigionamento.

H&M solo in questi ultimi giorni, spinta da forti pressioni e critiche pubbliche, ha annunciato ufficialmente che avrebbe pagato per gli ordini annullati mentre altri come Inditex, Marks and Spencer e Phillips-Van Heusen, proprietario di Tommy Hilfiger, si sono impegnati a sostenere le loro catene di approvvigionamento. Speriamo che queste iniziative possano concretizzarsi presto ed essere di buon esempio per le altre aziende.