Sono stati resi noti in questi giorni dal Dipartimento delle Finanze i dati aggiornati sulla ripartizione delle somme prelevate dall’Irpef e che hanno finanziato le diverse confessioni religiose. Sono calcoli non del tutto semplici perché, per esempio, è previsto che in ciascun anno vengano ripartiti gli importi relativi alle dichiarazioni di tre anni prima, le quali a loro volta si riferiscono al periodo d’imposta precedente. In ogni caso alcuni giornali danno per certo che, in sette anni, il numero di italiani che hanno deciso di destinare l’otto per mille dell’Irpef alla Chiesa cattolica sia diminuito di circa due milioni.
Per un cattolico, o addirittura per un prete come me, questa notizia è una cattiva notizia? Non è detto.
Con questa affermazione non sto sostenendo l'utopia di una chiesa "povera" nel senso di una Chiesa priva in assoluto di mezzi economici: dei soldi, finché sono uno strumento e non un fine, c'è bisogno. È importante però che sia saldo e veritiero il collegamento tra chi dona e chi riceve il dono. Secondo me, cioè, è infinitamente meglio che chi regala soldi alla Chiesa lo faccia perché è convinto della bontà di quanto fanno i preti o, in generale, le varie istituzioni ecclesiastiche, piuttosto del generico barrare una casella su un modulo. È noto il caso della Chiesa cattolica tedesca: è una delle Chiese cattoliche più ricche al mondo ma, contemporaneamente ha, secondo le statistiche, chiese (nel senso di edifici) sempre più vuoti.
La bimillenaria storia della Chiesa insegna invece che la gente, il popolo dei fedeli, non fa mai mancare il proprio sostegno convinto e generoso quando condivide l'operato di chi porta avanti le iniziative ecclesiastiche. Non sto parlando del rapporto di prestazione e controprestazione perché questo nel cristianesimo, almeno in linea di principio, non deve esistere: sto parlando di regalie e di gratuità.
È giusto che un prete senta la vicinanza, o anche la lontananza, della propria gente a seconda che il suo operato intercetti o meno la fede dei credenti. Nella Chiesa cattolica, come per ogni realtà umana, ciò che più vale è la motivazione ed è bene che ricevere o non ricevere denaro sia un indice che spinga a riflettere sulla motivazione.
È infinitamente più sano che un sacerdote porti avanti un’iniziativa contando sulla collaborazione economica dei suoi parrocchiani piuttosto che un prete, avendo a disposizione delle somme di denaro “anonime”, si lanci iniziative della cui bontà è convinto soltanto lui. Il denaro, se rimane al suo posto nella gerarchia dei valori, è un giusto ritorno. Tutti i movimenti ecclesiali sono iniziati senza soldi ma con grandi motivazioni da parte del fondatore e dei suoi seguaci, e questa dinamica ha sempre portato con sé il denaro che serviva. Se invece, per qualche meccanismo burocratico o semplicemente amministrativo, i soldi arrivano comunque, è facilissimo che non si lavori più per ravvivare motivazioni e carisma: quando, forse, ricevere il pungolo di non riuscire a chiudere i conti potrebbe essere l’occasione di una sana riflessione.
È bene per esempio che una Chiesa squassata dagli scandali della pedofilia veda non solo disertate le proprie riunioni ma anche svuotati i propri conti correnti. E, allo stesso modo, è bene - è sempre stato così - che la gente possa stare vicino anche economicamente a chi vede convintamente impegnato nella propria missione. Non sto criticando l'8 per mille ma sto criticando l'anonimato, il rapporto burocratico, chi riceve denaro e, di quel denaro non rende conto a nessuno, perché non conosce direttamente chi glielo ha donato e perché glielo ha donato.