Chiunque abbia corso la maratona di New York vi dirà immancabilmente che è una gara del tutto diversa dalle altre, assicurandovi di aver vissuto un’esperienza unica e irripetibile. Ebbene, toglietevi dalla testa di aver compreso cosa quel runner abbia veramente provato, perché anche il miglior affabulatore avrebbe difficoltà a trasmettere un’emozione lunga 42,195 chilometri. Anzi, per dirla all’americana, 26,2 miglia. Reduce dalla maratona del 5 novembre scorso, avevo rinunciato a mettere nero su bianco la mia personale esperienza, proprio perché mi sembrava complicato, se non impossibile, farlo. Poi, però, le emozioni vissute riaffiorano quando ricevo la mail con le foto della gara: sono sempre sorridente e, a differenza di quanto spesso mi capita, in nessuna ho il viso contratto, anche se ho faticato molto più del solito. E così decido di provare a raccontare.
Bisogna farla per capire
Prima di correre la maratona, ero già stato a New York altre volte, per lavoro o in vacanza. Ebbene, in quelle occasioni non avevo capito quale spirito animi la gente di New York. Non avevo capito quanto sia pronto a entusiasmarsi, a gioire, a fare festa. Non avevo capito che è un popolo giovane nella testa perché conserva ancora quella positiva innocenza che noi europei abbiamo perduto per sempre, sopraffatti dalla nostra storia, importante e tragica allo stesso tempo. Non avevo capito che la consapevolezza di tutte le storture del mondo fa avvitare noi europei in un cinismo spesso inconcludente, mentre i newyorkesi (che comunque rappresentano un ‘unicum’ e non rispecchiano affatto l’America nel suo complesso) mantengono quella positiva ingenuità che li induce a emozionarsi per un modesto podista che non punta alla vittoria, ma ha l’ardire di tentare un’impresa che va oltre i limiti fisiologici dell’uomo e cerca di spostare ogni volta un po’ più in là i confini della propria personalissima frontiera.
Una passione, peraltro, del tutto disinteressata, altrimenti non si capirebbe perché tanta gente stia per ore in strada a incitare e applaudire, non tanto e non solo gli straordinari campioni che chiudono la maratona in poco più di due ore, quanto piuttosto le migliaia di podisti che si trascinano tra dolori e fatica solo per la soddisfazione di tagliare il traguardo e mettere al collo la medaglia di ‘finisher’. Quest’anno, fra l’altro, l’appuntamento della maratona è caduto a pochi giorni dall’attentato terroristico compiuto da un affiliato dell’Isis sulla pista ciclabile non lontana da Ground Zero. La città era blindata e cecchini erano appostati sui tetti delle case. Eppure tre milioni di newyorkesi si sono ugualmente accalcati lungo tutto il percorso per manifestare il solito entusiasmo, incuranti del pericolo terroristico e per giunta sotto la pioggia. Mi viene da pensare che un popolo così abbia ancora speranza e fiducia nel futuro.
Più che una corsa, un'esperienza di vita
A differenza di quanto la maggior parte delle persone crede, quella di New York non è la maratona più antica del mondo e non è neanche la più veloce. Ma è senz'altro quella più importante e prestigiosa, quella che ogni podista vorrebbe poter correre almeno una volta nella vita. New York non si fa per realizzare il tempo. Per i ‘personali’ ci sono tracciati molto più veloci e scorrevoli come Berlino o Londra. Le decine di migliaia di podisti che all'alba della prima domenica di novembre si ritrovano a Staten Island sulla linea di partenza, cercano altro. Cercano l'emozione di trovarsi dentro un film, di correre su strade che fanno parte dell'immaginario collettivo dell'intera umanità. E questo vale soprattutto per gli stranieri che sono tantissimi e rappresentano quasi tutti i Paesi del mondo.
Prima che essere una gara, la maratona di New York è un’esperienza di vita da raccontare. È un giorno di festa per chi corre ma anche per chi sta al lato delle strade a incoraggiare senza sosta facendo un tifo da stadio. Chi ha corso una maratona sa bene che durante la gara ci sono lunghi momenti di solitudine in cui devi trovare dentro di te le risorse per resistere alla fatica e continuare ad andare avanti fino alla fine. A New York non è così, qui non sei mai solo.
Sveglia che è ancora notte fonda
Il giorno della gara comincia molto presto, quando è ancora buio. Sveglia alle 4:45 e appuntamento alle 5:30 nella hall dell’albergo: un bus ci porta in mezz’ora a Battery Park, dove partono i traghetti per Staten Island. Mezz’ora di navigazione, il tempo di scorgere in lontananza la Statua della Libertà ancora avvolta dalla nebbia del mattino e sbarchiamo in un piazzale dove rimaniamo a lungo in fila per passare i controlli di rito. La giornata non è fredda ma uggiosa e molto umida. Per fortuna sono ben coperto. Saliamo finalmente su un bus che attraversa il distretto di Staten Island e ci porta in un altro enorme piazzale, ai piedi del ponte di Verrazzano dove si trova la linea di partenza. Intanto si è fatto chiaro, sono da poco passate le sette e mezza: sto in piedi da tre ore e ancora ne mancano altre tre per la partenza. Si passa il tempo bevendo caffè e mangiucchiando qualcosa, poi un’ora prima dello start deposito sul camion lo zainetto che ritroverò all’arrivo di Central Park ed entro nel mio ‘corral’, la griglia di partenza, posto all’inizio del ponte. Il tempo di disfarsi di tutti gli indumenti superflui e l’adrenalina comincia a salire. Mancano pochi minuti, una banda militare intona prima l’inno americano, poi le note di ‘New York, New York’: partiti!
Quello di Verrazzano è il più lungo ponte americano e taglia l’Hudson collegando Staten Island a Brooklyn. Come tutti i ponti di New York è molto arcuato per consentire il passaggio delle grandi navi. La gara parte quindi con una salita lunga circa un miglio che però non si avverte perché le energie sono ancora intatte. Piuttosto, dopo tutti i racconti che avevo sentito sul tifo del pubblico newyorkese, resto un po’ deluso perché sul ponte ci siamo solo noi podisti. Per carità, non ti puoi sentire solo perché corriamo in 50.000 ma, insomma, mi aspettavo una partenza diversa. In realtà, il pubblico non c’è perché il ponte - che prende il nome dal navigatore fiorentino, Giovanni da Verrazzano, approdato per primo nel 1524 sulle rive dell’Hudson - non ha marciapiedi, essendo stato costruito negli ‘Anni 60’ esclusivamente per il passaggio delle auto. E comunque la vista è mozzafiato: sulla sinistra appare l’incanto dei grattacieli di Manhattan che bucano la foschia emergendo in tutta la loro maestosità.
Un tifo mai visto
Arrivati a metà ponte la strada spiana e inizia la discesa. Via via che mi avvicino alla terraferma sento una sorta di rimbombo, come un tuono lontano. Ancora non riesco a vederlo ma è il popolo di Brooklyn che accoglie i podisti alla fine del ponte. L’impatto è impressionante: migliaia di persone accalcate sul bordo della strada urlano, applaudono, suonano campanacci. Io sono abituato a correre a Roma dove, bene che ti vada, ricevi qualche incoraggiamento solo in pochi tratti del percorso. E non è raro il caso di persone che ti rivolgono apprezzamenti poco carini per la rabbia di essere rimaste imbottigliate nel traffico. Ho trovato un pubblico molto più caloroso di quello italiano in città come Berlino e Vienna, ma qui a New York è davvero tutta un’altra cosa. Mi avevano detto che la gente faceva un tifo straordinario ma, finché non vivi la cosa da dentro, non riesci a rendertene davvero conto. Fanno un tifo pazzesco, rumoroso, allegro, divertente, giocoso. E lo fanno per tutti gli oltre 42 chilometri del percorso.
Una cosa fantastica a cui noi umili podisti non siamo abituati e che ti dà una forza incredibile. Incrocio band che suonano musica rock, cori che cantano il gospel, sento chiamare centinaia di volte il mio nome e quello dell’Italia che porto stampati sulla maglietta: “Go Otto go”, “Italy”, “Bella Italia”. E mille volte sento urlare: “You can do it”, ce la puoi fare. Batto il ‘cinque’ a centinaia di mani, vedo migliaia di volti sorridenti. Volti di persone sconosciute che in quel momento sono lì per me: uomini e donne, bambini e anziani, tantissimi giovani, di tutte le etnie e di tutti i colori del mondo. Chi ti porge una banana, chi spicchi d’arancia, chi fazzolettini per asciugare il sudore. Tutti sorridono e io spesso abbandono la traiettoria migliore tracciata da una linea blu al centro della carreggiata per avvicinarmi ai marciapiedi dove è assiepato il pubblico: in questo modo riesco a stare il più vicino possibile alla gente, mi faccio coccolare e accarezzare dai loro sorrisi, mi faccio trasmettere quell’energia portentosa che tirano fuori con i loro incitamenti. Quello che sento è la stessa emozione che prova un calciatore quando butta la palla in rete e lo stadio esplode di gioia.
Non potevo che ripartire
Il percorso della maratona tocca tutti e cinque i distretti di New York. Si parte appunto dal ponte di Verrazzano che unisce Staten Island a Brooklyn. Da lì si risale verso nord e si arriva al Queens, quindi si attraversa il ponte di Queensboro (temutissimo dagli atleti per la lunga salita) e si entra una prima volta a Manhattan percorrendo la Prima Strada. Quindi si punta ancora a nord e si raggiunge il Bronx, distretto che si percorre per pochi chilometri prima di rientrare a Manhattan attraverso Harlem e puntare prima sulla Quinta Strada e poi su Central Park dove, dopo gli ultimi chilometri di insidiosi saliscendi, si taglia finalmente il traguardo. Tutti i distretti di New York sono straordinari nel tifo ma io, nella mia personalissima classifica, ho eletto vincitore il popolo del Queens dove veramente si raggiunge il culmine con suoni, canti, applausi, urla da far venire la pelle d’oca.
E comunque il sostegno del pubblico è costante per l’intero tracciato. Le foto pubblicate sul sito della maratona mi ritraggono sempre sorridente, anche quando camminavo zoppicando. Sì, perché al trentesimo chilometro si risveglia l’infiammazione a piriforme e nervo sciatico che mi trascinavo da qualche settimana: una fitta improvvisa al gluteo che mi costringe a fermarmi. Faccio stretching, poi comincio a camminare. E a quel punto la gente è davvero commovente. Io quasi mi vergogno di non riuscire a correre e non ho più il coraggio di guardare le persone in faccia come ho fatto fino a quel momento. E invece loro sono lì a incoraggiarmi, a incitarmi ancora più forte. A un ragazzo che mi urla: “Go Italy”, rispondo scuotendo la testa, quasi per giustificarmi: “I have a terrible back pain”. E lui: “You can do it, you can do it”. Cavolo, mi dico, ci devo provare.
Ma il dolore è troppo forte, la gamba destra è bloccata e non riesco ad allungarla. Poi arriva sul telefonino un messaggio di mio figlio che, da Roma, sta seguendo la mia corsa sulla app della maratona e si è accorto che mi sono fermato. Mi scrive semplicemente: “Dai pa’, prova a correre!”. Mi viene un groppo in gola e tiro fuori tutta la forza e la rabbia che ho dentro. Riprendo a correre ma i primi metri sono terribili: mi fa male il gluteo ma ho dolore anche ai quadricipiti che, nel frattempo, si sono raffreddati. Mi vengono pure accenni di crampi ai polpacci, ma non voglio cedere e provo a cercare il ritmo di corsa giusto per evitare di sollecitare troppo i muscoli. La tenacia e l’esperienza mi vengono in soccorso e riesco a trovare il punto di equilibrio. “Go Otto go”, mi fa una ragazza. “Sì va bene, vado, vado…”. Ora mi posso davvero godere gli ultimi chilometri di gara. So di potercela fare, so che ce la farò: stringo i denti per sopportare il dolore, eppure riesco a sorridere. Ed è così fino alla fine, fino al traguardo di Central Park, dove mi mettono al collo la medaglia di ‘finisher’ e io sono felice come un bambino.
Last damn bridge
C’è un punto nel Queens in cui la strada si restringe e la gente accalcata ai bordi ti sta proprio addosso, arriva a sfiorarti e riesci quasi a coglierne il respiro. In quel punto a me sembrava di essere come i ciclisti che nei tapponi di montagna fendono le ali di folla e dai tifosi vengono incoraggiati, quasi sospinti verso la vetta. Ma l’immagine che più ho impresso nella mente è quella di una donna di colore ferma all’inizio del ponte che dal Bronx porta a Manhattan, intorno al trentacinquesimo chilometro. Stava in silenzio, non applaudiva e aveva la faccia seria. Teneva in mano un cartello con su scritto: “Last damn bridge!”. Insieme alle salite finali di Central Park, i cinque ponti del tracciato sono temutissimi da chi corre la maratona di New York, perché sono in forte pendenza e spezzano ritmo e gambe. Quella donna che mi ricordava di trovarmi sull’”Ultimo dannato ponte” era la sintesi perfetta del sentimento che provavo in quel momento. Mi sarei fermato per abbracciarla, se non fosse che poi la ripartenza in salita sarebbe stata ancora più faticosa da gestire per i miei muscoli provati. Però ringrazio quella donna sconosciuta che mi ha dato la forza di capire che a quel punto non potevo più arrendermi, che l’impresa ormai non poteva più sfuggirmi, che ce l’avrei fatta.