Che delusione. Anche questa legislatura si chiude senza riforma di cittadinanza. E probabilmente, per ciò che ci stanno raccontando i sondaggi, non sarà tra le priorità della prossima. Dato che buona parte dei partiti che potrebbero avere la maggioranza esulta per la mancata approvazione.
Risultato: la politica ha di nuovo voltato le spalle a oltre 800mila ragazzi, condannandoli a essere parte di un esercito di fantasmi. Una generazione intera che contribuisce a portare avanti l'Italia ma che non è autorizzata a sentirsene parte. E io sono uno di loro.
Lo confesso: prima del 13 ottobre 2015 non ci speravo molto, perché comunque la maggioranza era sempre stata precaria, costruita su un compromesso per approvare una nuova legge elettorale e tornare alle urne. Non pensavo che nella sua precarietà la Camera dei Deputati avrebbe portato a casa un bottino di questa portata.
Quel giorno in tanti hanno cominciato a festeggiare. A crederci per davvero. “Questa è la volta buona”, abbiamo pensato. Qualcuno mi ha persino contattato per informarsi su "quando andare in Comune a chiedere la cittadinanza". Ormai era solo questione di tempo perché la volontà politica era palesata con forza.
Sono passati due anni, è cambiato il governo e qualcuno ha cambiato anche idea: “non è il momento”; “le priorità sono altre”; “legge giusta ma tempistica sbagliata”. Sono gli addobbi per coprire il ‘non s’ha da fare’ che ha di nuovo riportato nell’amara realtà chi si illudeva di progettare un futuro diverso, migliore. L’Italia del 2017 è la stessa di trent’anni fa. Poco importa se fuori da quelle stanze dei bottoni c’è una società che dà per scontato l’italianità di tante persone che italiane, nei documenti, non lo sono. E, a questo punto, non lo saranno nel breve tempo.
Io sono uno di loro. Da giornalista ho contribuito a raccontare questa nuova Italia. Ho seguito tante campagne elettorali, accompagnato intere amministrazioni e dato voce a centinaia di cittadini. Ma non ho mai potuto dire nel concreto la mia perché non posso votare. Ed è sola una delle tante porte chiuse in faccia a questa generazione bloccata nel limbo italiano: non possono viaggiare come i loro compagni di scuola, non possono partecipare a tutti i concorsi come i loro colleghi dell’università, non possono ambire a ruoli di vertice indipendentemente dalle loro competenze e capacità.
Nonostante, tra l’altro, lo stesso Stato abbia investito su di loro con istruzione e formazione. E molti di loro rappresentano il modello positivo del connubio tra le culture: la maggioranza è almeno bilingue ed è già proiettata verso un mondo aperto. Ma non basta. In sostanza, questi ragazzi non hanno le stesse opportunità degli italiani. E questa è la più profonda delle ingiustizie.
Basterebbero queste poche righe per rispondere a chi ritiene la riforma della cittadinanza non importante o secondaria. Perché, onestamente, se non è importante il diritto di avere le stesse ambizioni e di inseguire i propri sogni, come chiunque altro, non so cosa possa esserlo.
Dove abbiamo sbagliato. La politica ha ovviamente una parte importante delle responsabilità, ma forse tutti noi avremmo potuto spiegare meglio la riforma dello Ius soli. Per fare comprendere a chi la teme che non si tratta di regali o premi: è semplicemente la certificazione dello stato attuale della società. In estrema sintesi, è previsto il riconoscimento di cittadinanza chi nasce in Italia da genitori stranieri di cui almeno uno abbia un permesso di soggiorno di lungo periodo (quindi che sia stabile in questo Paese, che abbia un lavoro, un reddito e nessun precedente).
Inoltre, il riconoscimento è previsto anche per i bambini che arrivano in Italia prima dei dodici anni e completano un ciclo di studi. Dunque persone che fanno parte a pieno titolo di questa società. Nessuna invasione. Nessuna forzatura. Purtroppo non siamo riusciti a contrastare lo tsunami di disinformazione che ha avvelenato questa campagna di civiltà.