La tutela di un figlio non è complicità. Tutelare significa anche impedire che si possa mettere nei guai, che la sua situazione possa peggiorare o che gli possa capitare qualcosa di grave. Essere complice significa sapere, e coprire, rischiando di fargli arrivare il messaggio che ciò che ha fatto è lecito, assecondando i suoi comportamenti devianti. Per un genitore, denunciare un figlio, non è per niente facile. È una decisione che si prende o per esasperazione o per evitare il peggio.
Si arriva ad ammettere che serve l’intervento delle forze dell’ordine quando capisce che da solo metterebbe in atto altri comportamenti rischiosi per se stesso e per gli altri. Denunciarlo significa fermarlo, mettergli un freno con la forza, non è un tradimento della fiducia, anche se inizialmente dai figli può essere letto così. È un gesto di coraggio perché il figlio potrebbe non capire, potrebbe arrivare ad odiare il genitore e compromettere il loro rapporto. È un rischio che si corre per amore, anche se spesso, viene criticato e giudicato da chi non conosce cosa realmente si è provato e si vive.
In parallelo ai genitori che denunciano i figli abbiamo sempre più madri e padri in versione detective che cercano di spiare le loro vite e sapere tutto di ciò che fanno, dicono e se potessero anche pensano. Una sorta di invasione nella loro vita e della loro privacy. Il rispetto degli spazi privati di un figlio è un argomento che divide l’opinione pubblica, molto delicato da trattare perché, senza cognizione di causa e senza analizzare il come, non possiamo dire se si tratti di un comportamento giusto o sbagliato.
Tante volte la pura curiosità di un genitore di sapere tutto della vita del figlio supera il limite del rispetto della persona. Ci sono madri e padri che li fanno seguire senza che ci sia un reale sospetto o motivazione, che mettono le microspie nelle camere o addosso ai loro figli per sapere sempre quello che fanno e in quale luogo si trovano. Un controllo ossessivo troppe volte fine a se stesso nascosto dietro la scusa della tutela. Il controllo di un figlio non è la soddisfazione di una curiosità personale, troppo spesso andiamo ben oltre i bisogni di sicurezza.
Se un genitore ha dei sospetti concreti o si accorge che il figlio frequenta compagnie particolari, che le sue abitudini e i suoi comportamenti sono cambiati, se non riesce più a parlare più con lui, a scardinarlo, ad andare oltre quel muro, ha senso controllarlo. In questo caso è un aiuto, una tutela, un cercare di impedire che possa andare oltre, ma entrare nei suoi amori, nelle sue amicizie, nella intimità, no, non è corretto. Tutti noi abbiamo avuto e abbiamo lottato per avere un nostro spazio di libertà e di movimento.
C’è un limite che va valutato di volta in volta, non c’è una regola fissa da rispettare. Si capisce quando un figlio ha un problema. Si capisce se si cresce guardandolo negli occhi, osservandolo nella sua quotidianità, guardando la sua essenza e non solo le sue prestazioni. Se non li conosciamo non possiamo pretendere di invadere la loro vita. Se invece si è consapevoli di un problema e non si riesce a risolvere in altro modo, le forzature sono un strumento, un aiuto e, in tanti casi, una soluzione.