Nelle ultime settimane si è entrati nel vivo del dibattito sulla programmazione finanziaria europea per lo sviluppo che seguirà il settennato 2014-2020, in particolare su come dovrà essere strutturato il prossimo Multiannual Financial Framework.
La Commissione Europea ha pubblicato una serie di documenti che sono il punto di partenza delle consultazioni avviate con gli stakeholder per discutere sulle risorse che la UE potrà avere a disposizione, su quali aree dovranno essere spese e in che modalità.
Molti i nodi della discussione, dalla Brexit, che comporta una riduzione dei fondi disponibili, alle nuove sfide che gli Stati membri devono fronteggiare, quali l’immigrazione, la sicurezza, la difesa, nonché il disagio sociale dei cittadini che alimenta populismo e ripudio dei valori europei.
Gran parte del bilancio UE è destinata a sostenere l’agricoltura e la politica di coesione, i cosiddetti “finanziamenti europei”, ben conosciuti da enti e imprese per supportare la crescita nei loro territori o aumentare la competitività del sistema produttivo con l’innovazione, la formazione e l’internazionalizzazione, ecc.
Il momento è quindi piuttosto critico, perchè questi 2 capitoli del bilancio potrebbero subire tagli consistenti per far fronte alle nuove necessità della UE, sempre che non si trovi un difficile accordo sul reperimento di risorse proprie, cioè tasse di diretta competenza della UE, o si convincano gli Stati membri ad aumentare le contribuzioni.
In questo contesto un altro punto cruciale riguarda le modalità di impiego dei fondi UE. La spesa pubblica, a qualunque livello - europeo, nazionale e regionale - è sempre al centro dell’attenzione perché la sua qualità è spesso valutata negativamente sulla base dell’efficienza e della efficacia degli investimenti realizzati o dei servizi resi alla collettività.
L’Italia è notoriamente lenta a spendere i fondi UE e, quando comunque ci riesce, lo deve sovente a sostanziose riprogrammazioni di spesa, dove si abbandonano gli obiettivi iniziali per eseguire interventi con benefici molto diversi rispetto a quelli originariamente attesi.
Allora è ormai imprescindibile usare le consultazioni pure per dire a Bruxelles e agli Stati membri che le modalità di gestione della spesa hanno ormai raggiunto un grado di complessità rilevante, stratificandosi su un numero di organismi che rasenta quasi l’assurdo.
Infatti la “macchina amministrativa” è composta da una pluralità di soggetti che - sia in base al fondo (FESR, FSE e il FEASR) e sia per livello territoriale (20 regioni solo in Italia) - scriveranno i loro bandi per assegnare/spendere i fondi con regole diverse, in modi più o meno efficienti, ma con la conseguenza per chi svolge attività di supporto e controllo a livello europeo e nazionale (Ministero coesione, Agenzia di coesione, Commissione europea - DG Regio, Autorità di audit, Corte dei conti, Antifrode e Anticorruzione) - di doversi impegnare a gestire una eccessiva proliferazione di procedure, perdendo di fatto il controllo sulla qualità attuativa delle politiche e la misurazione della loro efficacia.
Gli esempi negativi di una siffatta condizione sono molti e la soluzione non sta nella evidente impossibile abolizione delle regioni, ma nella imposizione di procedure - quantomeno nazionali - per la spesa dei fondi.
Agli enti regionali rimarrebbe la responsabilità di stabilire le dotazioni sui vari obiettivi tematici secondo le esigenze specifiche dei territori, garantendo anche autonomia nella definizione dei criteri che stabiliscono le graduatorie per concedere i contributi quando è necessario, purché rientrino sempre in parametri fissati a livello nazionale.
Rivedere i principali meccanismi di governance delle politiche finanziarie, semplificando e centralizzando le procedure, può portare a concreti miglioramenti nella fase di attuazione, salvaguardando allo stesso tempo le prerogative regionali in termini di assegnazione delle risorse e di criteri premiali. Soprattutto garantirebbe un ritorno di fiducia nei valori dell’Unione Europea.
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