La prima centrale nucleare commerciale al mondo, Calder Hall nel nord dell’Inghilterra, fu connessa alla rete elettrica il 17 ottobre 1956.
La costruzione di centrali elettronucleari a fissione ha poi conosciuto il suo periodo d’oro nel trentennio 1956–1986. Da venticinque anni il numero di reattori nel mondo è invece sostanzialmente stabile, poco sopra le 440 unità, di cui soltanto 402 attive. Il parco centrali è quindi molto datato, con una età media di oltre 30 anni. L’energia nucleare oggi fornisce il 10,7% dell’energia elettrica mondiale e meno del 4,4% dell’energia primaria complessiva. Nel mondo ci sono attualmente circa 60 reattori nucleari in costruzione, che non basteranno per rimpiazzare quelli prossimi al pensionamento.
Il panorama è particolarmente statico nelle regioni con il maggior numero di impianti, Stati Uniti e Unione Europea. In Europa occidentale vi sono soltanto due nuovi reattori in costruzione, entrambi su siti che già ospitano vecchi impianti.
C'è battaglia negli Usa
Negli Usa, dove non è prevista la messa in funzione di nuovi impianti nel breve e medio termine, è in corso una battaglia legale per allungare fino a 60 o 80 anni la vita dei reattori esistenti. Questi però erano destinati a funzionare per soli 40 anni e ci sono forti dubbi sulla loro sicurezza a lungo termine, specialmente per le parti del reattore che non sono ispezionabili.
La stragrande maggioranza dei circa 400 reattori oggi attivi nel mondo appartiene alla cosiddetta seconda generazione, con vari tipi di progetto. Sono molto diffusi i light water reactors (lwr), che utilizzano normale acqua sia per rallentare i neutroni sia per raffreddare l’impianto, e uranio arricchito come combustibile.
Attualmente gli impianti più moderni vengono definiti di terza generazione. Si tratta sostanzialmente di centrali lwr basate su un progetto più evoluto e, soprattutto, più competitivo dal lato economico. Tutte le analisi più autorevoli riservano al nucleare un ruolo limitato nello scenario energetico del futuro: l’Agenzia internazionale per l’energia (iea) prevede che nel 2030 esso fornirà una quota del fabbisogno elettrico mondiale del tutto simile ai livelli attuali.
Questo dato rappresenta una sonora sconfitta per una tecnologia che negli ultimi decenni ha ricevuto oltre il 60% dei fondi per la ricerca e lo sviluppo di nuove tecnologie energetiche nei Paesi avanzati. Le centrali nucleari del futuro dovrebbero appartenere alla cosiddetta quarta generazione o G4. Attualmente il loro sviluppo è oggetto di un protocollo di collaborazione internazionale fra tredici Stati e si prevede che la loro costruzione non possa iniziare prima di 30 anni.
Alcuni tra i progetti G4 implicano il riprocessamento di combustibile esausto, che è economicamente dispendioso e produce plutonio. Quest’ultimo dovrebbe essere processato in modo da renderlo «resistente alla proliferazione», ovvero di cile da trafugare e processare.
In alcune configurazioni i progetti G4 sono autofertilizzanti (breeder), cioè producono da soli il proprio combustibile. Ciò è possibile quando il reattore funziona a plutonio e questo è addizionato di uranio naturale che, come abbiamo visto, può trasformarsi a sua volta in plutonio in conseguenza delle reazioni di fissione.
I tentativi di mettere a punto reattori autofertilizzanti sicuri, affidabili ed economicamente sostenibili vanno avanti da decenni e il loro bilancio è stato sinora fallimentare, a cominciare dal velleitario progetto franco-italiano Super-Phénix, chiuso definitivamente nel 1997, o al giapponese Monju, mandato in pensione nel 2016 dopo aver funzionato soltanto 250 giorni nell’arco di vent’anni.