Più si consuma, più si è felici?

Ci viene chiesto di produrre di più e consumare di più per far crescere il pil, prodotto interno lordo, considerato l’unico indicatore di sviluppo e di benessere di una collettività. In realtà il pil misura unicamente il valore di mercato delle merci e dei servizi che richiedono pagamenti; quindi cresce anche se si vendono più armi, se si aumenta il numero dei poliziotti per contrastare la criminalità e se ci sono più incidenti stradali.
Il pil non considera, invece, tutte quelle attività che, pur non registrando flussi monetari, contribuiscono ad accrescere il benessere di una società, come il lavoro casalingo o il volontariato. L’aumento del pil è davvero la ricetta per la felicità? Siamo sicuri che sia più felice un imprenditore agricolo che, per massimizzare il guadagno immediato, usa ogni mezzo pur di aumentare la produttività del suo campo, rispetto a un contadino più preoccupato di preservare la fertilità del suolo che l’abbondanza del raccolto?
Continuare a sostenere che il pil deve crescere a ogni costo e che bisogna sempre aumentare i consumi vuol dire ignorare la realtà oggettiva del mondo fisico: viviamo sopra un’astronave chiamata Terra, le cui risorse sono intrinsecamente limitate. D’altra parte ormai è chiaro che il benessere non aumenta con la crescita economica. Oggi, per misurare il benessere, gli studiosi all’avanguardia usano indici che, accanto alla produzione economica, tengono conto anche della sostenibilità sociale e di quella ambientale.
Per esempio il gpi (genuine progress indicator, indice del vero progresso) ha l’obiettivo di misurare il reale aumento della qualità della vita di una nazione: lo si calcola distinguendo tra spese «positive» (come infrastrutture, istruzione, sanità) e «negative» (come criminalità, inquinamento, incidenti stradali). Indicatori di questo tipo mostrano che nei Paesi sviluppati, anche se il pil continua a crescere, il benessere in realtà non cresce più.
Se avete correzioni, suggerimenti o commenti scrivete a dir@agi.it