Mettetevi nei panni del responsabile di un ufficio acquisti chiamato a scegliere un nuovo smartphone aziendale per i dipendenti di una società. Quali elementi prendereste in considerazione? Il prezzo, ovviamente. Le performance, ci mancherebbe altro. La longevità della macchina. E poi quell’impalpabile e un po’ aleatorio parametro che va sotto la dicitura di affidabilità. Una parola che, nel mondo della tecnologia, vuol dire tutto e niente, ma che per una società che deve scegliere in quali mani mettere le comunicazioni dei propri dipendenti, può fare la differenza tra il successo e il fallimento.
Fino a qualche tempo fa l’unica minaccia percepita era quella di ineffabili hacker che, con gli scopi più svariati, si ingegnavano di mettere le mani su conversazioni, chat ed e-mail.
E per questo i produttori si affannavano ad assicurare che i segreti dei clienti sarebbero stati protetti, nelle loro mani. Fino a quando non sono state proprio quelle mani a non essere più percepite come così sicure. E’ successo quando si è capito perché i colossi della tecnologia – e non solo della telefonia – fossero così interessati alle nostre informazioni personali e quando i governi hanno cominciato a mettere in dubbio la affidabilità di questo o quel produttore di tecnologia al quale tutti – individui, istituzioni e aziende – affidiamo le nostre comunicazioni. Affidiamo. Affidabilità.
Nel momento in cui configuriamo un nuovo telefono, ci vengono chieste così tante autorizzazioni che le concediamo senza pensarci troppo. Diamo accesso alla nostra rubrica, alla nostra agenda, a una fotocamera che può guardarci e a un microfono che può ascoltarci quando non vorremmo. Che lo facciano o no è un’altra questione: l’importante è che possano farlo. E questo è solo quello che abbiamo concesso noi, di nostra volontà.
Ma qualcuno ha cominciato a sollevare il dubbio che qualche produttore possa nascondere negli smartphone o nelle antenne delle ‘porte di servizio’ lasciate socchiuse per poter entrare e uscire a proprio piacimento. Solo sospetti, finora non supportati da alcuna prova concreta a eccezione di un vecchio scandalo che sembra più che altro tirato fuori ad arte per rendere più aspra la guerra commerciale sul fronte più caldo, quello tecnologico. Ma viviamo in una società che si fonda sulla fiducia e sul sospetto, quindi la vera domanda è: di chi vi fidate? Dei dominatori del mercato sudcoreani? Degli ambiziosi, ma poco democratici cinesi o degli americani d Echelon?
Chi controlla i controllori? E’ la domanda che sembra destinata a restare senza risposta, ma, come a volte capita, la risposta si trova mentre si cerca qualcos’altro.
Quando crearono OnePlus, l’ambizione di Carl Pei e Pete Lau non era realizzare lo smartphone perfetto, ma lo smartphone che serviva. E chi meglio degli utilizzatori poteva indicare cosa serviva davvero in uno smartphone? L’approccio della società – che fino a qualche tempo fa, bisogna ricordarlo, si permetteva di fare ricerca e sviluppo grazie ai capitali del colosso cinese Bkk – è con l’utente, più che con il cliente e la creazione di una community di utilizzatori è stata senza dubbio la mossa più rivoluzionaria in un ambiente (e in un mercato) dominato da aziende con filosofie profondamente diverse come Apple, Samsung e Huawei.
Ascoltare il cliente è meritorio, ma costa un sacco di tempo e di denaro. A OnePlus questo dettaglio finora non è importato e per questo l’azienda si è permessa il lusso di raccogliere le segnalazioni della community, farle proprie per mettere a punto un device da far testare e migliorare. Ancora e ancora, fino a quando i futuri potenziali utilizzatori non lo avessero trovato in linea con le proprie aspettative.
Di fatto è come se Pei e Lau avessero dato le chiavi di casa a un ospite perché la ristrutturassero a proprio piacimento, ma a spese loro. Un approccio che ha dato i suoi frutti in termini di crescita del brand, ma che ha generato un effetto secondario imprevisto. Mentre davano una mano a progettare e ristrutturare la casa, gli ospiti stavano attenti a che nessuno entrasse a rubare, ma anche a che ogni cosa – dall’impianto elettrico alle tubature – fosse fatta a regola d’arte.
Fuor di metafora, gli sviluppatori chiamati a collaborare con la progettazione di un nuovo smartphone ne seguono la realizzazione e mentre lo fanno, vigilano. Verificano che il sistema sia davvero aperto, e questo significa che se a qualcuno venisse in mente di mettere in un telefono qualcosa che non dovrebbe esserci, sarebbero i primi ad accorgersene. Ed essendo tanti, ma soprattutto ispirati da quel senso di democraticità che vorrebbero dare alla tecnologia, non esiterebbero a suonare il campanello d’allarme. E’ così che una community nata per creare un buon telefono, alla fine ne garantisce continuamente la affidabilità, quella affidabilità che va oltre le performance e la longevità e che ci si dovrebbe aspettare da uno strumento al quale ogni giorno, in ogni momento, affidiamo una buona parte di noi.
Presentando a Londra il nuovo top di gamma di OnePlus, Pete Lau lo ha detto con chiarezza: è un momento di svolta per il brand. E basta guardare il 7 Pro per capire a cosa alluda: schermo curvo, comparto fotografico nettamente migliorato rispetto ai modelli precedenti, ricarica veloce e una estetica molto più attenta alle mode. Significa che OnePlus ha imboccato la strada del mainstream, che vuole sedersi al tavolo con i grandi (ma le quote di mercato sono ancora esigue) e che deve farlo se vuole essere sostenibile ora che deve camminare con le proprie gambe.
Un indirizzo che piace alla community che quello smartphone ha contribuito a creare? Bisogna aspettare, ma già qualcuno ha storto il naso di fronte al prezzo, ancora competitivo ma non più come in passato. La vera chiave di (s)volta resta però proprio la community. Finché Lau e Pei saranno convinti che è lei a dare senso al brand, lo spirito innovativo e in qualche modo rivoluzionario di OnePlus sarà salvo. Ma se dovessero decidere di chiudere gli sviluppatori fuori casa e cambiare la serratura, il sogno di essere la “Apple del sistema Android” si dissolverà in un attimo.