Sono passati più di 40 anni da quel 24 ottobre 1975, in cui le lavoratrici islandesi scioperarono per protestare contro la differenza salariale (scesero in piazza in 25 mila, 1/5 dei residenti, perché in busta paga ricevevano il 60% in meno dei colleghi maschi), ma di strada da fare ce n’è ancora molta. E non solo in Islanda, che è sempre stata all’avanguardia nella promozione dei diritti delle donne: non è un caso che quest’isola sia da 9 anni al primo posto al mondo come Paese con il minor divario di genere in base ai dati del World Economic Forum, non è un caso che sia islandese la prima donna presidente eletta in maniera democratica (si chiamava Vigdís Finnbogadóttir ed era il 1980), non è un caso che abbia visto la luce qui la prima legge al mondo che impone la parità salariale tra uomini e donne.
Ancora oggi le donne continuano a essere pagate meno degli uomini. Ovunque. Anche nella civilissima Europa, dove da adesso alla fine dell’anno è come se le donne lavorassero gratis (ne ha parlato Sonia Montrella qui su Agi qualche giorno fa). Anche negli Stati Uniti. Non c’è Stato al mondo in cui le donne guadagnino quanto gli uomini: è stato calcolato che, considerata l’attuale situazione, ci vorranno altri 170 anni per colmare il gender pay gap, ovvero il divario retributivo globale . Un po’ meno in Islanda, dove questo obiettivo potrebbe essere in parte raggiunto nel 2022, ma solo perché, come dicevamo, la parità salariale — almeno per le aziende con più di 25 dipendenti — è stata imposta per legge: anche nella repubblica più emancipata del pianeta la disparità si attesta attorno al 17%, motivo per cui il 24 ottobre del 2016 le lavoratrici hanno incrociato le braccia alle 14.38: rispetto allo stipendio percepito dagli uomini, infatti, le donne che lavorano oltre questo orario lo fanno gratis. Eppure un cambiamento culturale non si attua per decreto, «ma a volte, se vuoi il progresso» mi ha spiegato l’autore del provvedimento «sei costretto a imporlo dall’alto. Una legge non cambia la società e la mentalità a essa legata automaticamente, ma contribuisce a farlo.» In realtà questa norma, la prima al mondo nel suo genere, approvata dall’Althing (il parlamento islandese) l’8 marzo di quest’anno e pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale tre settimane dopo, non è piovuta dall’oggi al domani come un temporale estivo. Þorsteinn Víglundsson, Ministro degli Affari Sociali e dell’Uguaglianza dall’11 gennaio del 2017, soddisfatto del risultato raggiunto ma anche sorpreso di tanta attenzione per una decisione che secondo lui attiene ai diritti umani e alla lotta contro l’ingiustizia, mi riceve nella sede del Ministero alla periferia di Reykjavik e davanti a un caffè mi spiega la genesi e l’iter di questa legge.
"Abbiamo iniziato a lavorarci nel 2008, quindi c'è stata una preparazione abbastanza lunga. È nata su iniziativa dei Social Partners, cioè dei sindacati e dei datori di lavoro, che hanno iniziato a sviluppare questo tipo di misure. Sin dall’inizio c’è stata una cooperazione trilaterale e presto si è deciso di sviluppare dei management standards (i management standard nascono dall'esperienza nordeuropea e poggiano su alcuni importanti concetti come la responsabilità sociale dell'impresa e l'etica del lavoro: sono delle modalità di comportamento manageriale che se attuate riducono o eliminano il rischio di stress, ndr), per i quali ci son voluti quattro anni. Nel 2013 abbiamo iniziato a sviluppare il progetto pilota con circa 13 o 14 imprese, alcune istituzioni, sia pubbliche che private, e 2 Comuni: si è trattato di un lavoro continuo fino alla scorsa primavera. Di conseguenza la stesura del testo non ci ha preso tanto tempo, perché avevamo già elaborato i management standards: per presentare la legge al Parlamento e farla approvare ci son voluti circa quattro mesi".
A tempo di record, considerando che governavate da soli due mesi…
"Vero, ma si trattava di uno degli obiettivi del mio partito, qualcosa su cui puntavamo molto, che ritenevamo dovesse essere fatto, una priorità per il governo. Avendo la maggioranza in Parlamento, era evidente che la legge sarebbe stata approvata, ma ha avuto anche un esteso appoggio da parte delle opposizion".
Il problema certamente non era nuovo.
"Il gender gap è sempre stato un problema qui in Islanda, come da qualsiasi altra parte, perché nelle stesse condizioni degli uomini, a parità di mansione, le donne guadagnavano meno. In Islanda la prima legge fu approvata nel 1961, quindi più di cinquant’anni fa, e non eravamo ancora riusciti a raggiungere la parità: per questo abbiamo pensato di rendere obbligatoria per le imprese la certificazione dell’uguaglianza salariale. Se si vuole essere all’avanguardia in questo campo, bisogna compiere azioni molto decise. Avevamo alle spalle un’altra esperienza che confermava la bontà di questa linea: l’approvazione, sette anni fa, della prima legge per le quote di genere nei consigli di amministrazione. Le imprese toccate da questa legge (soltanto quelle con 50 o più dipendenti) la adottarono e si adattarono facilmente ad essa, e ciò permise di raggiungere un maggiore equilibrio all’interno di queste realtà, mentre le società più piccole, quelle non obbligate dal provvedimento, non cambiarono molto la loro composizione al vertice. Attualmente nelle imprese con 50 o più dipendenti c’è una rappresentanza del 33-34% di donne, mentre prima della legge si aggirava intorno al 20%, percentuale che invece è rimasta invariata per le società non toccate dalla legge (anche in Italia grazie alla legge Golfo-Mosca si è passati dal 7,4% di donne all’interno dei board di aziende quotate del 2011 al 30,3% nel 2016, ndr). Mi sono pertanto convinto che questo meccanismo non si sarebbe rivelato pienamente di successo fino a quando non fosse diventato obbligatorio per tutte le aziende".
Gli imprenditori locali, invece, erano un po’ meno convinti.
"Nel corso del confronto, che naturalmente c’è stato, hanno rivendicato il fatto che attuare ciò sarebbe costato di più e che ritenevano illegittima una tale imposizione da parte del governo. In realtà nel progetto pilota l’aumento delle spese e dei costi si è rivelato dello 0,1-0,2%, che non è molto se si pensa che in media le donne guadagnano il 7-8% in meno. Ora dovremo vedere quale sarà l’impatto dell’introduzione di queste misure, perché ci sono diversi importanti fattori da tenere in considerazione. L’obiettivo è di sanare questo gender gap entro il 2022: le operazioni di controllo inizieranno a partire dal prossimo anno con le imprese più grandi, che dovranno essere certificate entro la fine del 2018, poi gradualmente tutte le altre con 25 o più dipendenti, che dovranno essere certificate entro la fine del 2020, e verranno successivamente sottoposte a controlli ogni tre anni. Sarà necessario dialogare con le aziende interessate, in fondo non si tratta di decreti di complicata attuazione: tutto si basa su un sistema di retribuzione uguale per uomini e donne da parte delle imprese, che possono decidere ciascuna il loro sistema, perché non viene fissato il modo in cui i salari devono essere pagati e quindi ognuno può scegliere che tipo di misure adottare per raggiungere una completa parità; si può anche stabilire in base a quali fattori fissare i salari, come l’esperienza di un dipendente, la sua formazione o qualsiasi altra cosa. L’unica condizione imposta è l’assoluta trasparenza di questo sistema e dei meccanismi a esso legati: dev’essere chiaro e accessibile a tutti come l’azienda ricompensa ciascun dipendente oltre a un’analisi dei salari dei componenti dell’azienda, che poi vengono esaminati per verificare se le retribuzioni all’interno di quella realtà sono corrette e accertare quindi che non c’è nessun tipo di discriminazione tra uomini e donne. Sono molto ottimista sul fatto che tale processo potrà fare la differenza, pur consapevole che non risolverà tutto, perché ci sono altre sfide che dovremo affrontare all’interno del mercato del lavoro, come da qualsiasi altra parte in Europa".
A quali sfide sta pensando?
"Ad esempio al fatto che le donne sono occupate principalmente all’interno di ambiti legati all’insegnamento e all’assistenza sanitaria, mentre in altri campi, come l’ingegneria o altre materie tecniche, campi in cui tra l’altro si ricevono stipendi mediamente maggiori, predominano gli uomini. Bisogna incoraggiare le donne a dedicarsi anche a studi tecnici".
Di certo la difficoltà di accedere ad alcune professioni e a incarichi di vertice, il fatto che da sempre il lavoro femminile valga meno, ma anche l’utilizzo del part-time e la scarsa capacità di negoziazione che riescono a mettere in campo le donne, sono tra i fattori che concorrono al divario retributivo: tra tutti questi è d’accordo che un posto d’onore spetta alla maternità?
"Purtroppo sì. È un problema serio perché se non ci sono certi servizi, come ad esempio gli asili nido, avere due o tre figli per una donna significa star lontana dal mondo del lavoro per almeno dieci anni. Con conseguenze economiche facilmente intuibili. Per quanto riguarda il fatto che il lavoro delle donne vale meno le racconto un aneddoto: qualche anno fa l’università islandese fece un esperimento, in cui alcune persone venivano messe nella condizione di comportarsi come degli imprenditori e di affrontare le diverse sfide di un manager; molte mansioni implicavano la decisione dei salari e in media venivano assegnati alle donne dei salari inferiori del 20% rispetto a quelli degli uomini. E non c’era differenza se a interpretare il ruolo di manager erano uomini o donne, se erano giovani o anziani: questo significa che questa concezione è profondamente radicata nella cultura".
Cos’avete fatto in Islanda, dove lavora l’80% delle donne (contro l’87% degli uomini), per ridurre questa penalizzazione?
"Abbiamo attuato diversi provvedimenti. La prima cosa da garantire, se non si vuole che la maternità abbia un impatto negativo sulla possibilità di avere una carriera e sulla partecipazione delle donne al mercato del lavoro, sono asili nido di qualità e abbordabili (attualmente in Islanda più del 90% dei bambini frequenta l’asilo nido, ndr). Fondamentale si è rivelato poi il sistema dei congedi parentali di nove mesi divisi tra il padre e la madre: ciascun genitore ha tre mesi di congedo e, se un genitore decide di non utilizzarli, questi tre mesi vengono persi, non sono trasferibili all’altro genitore. In più i due genitori possono decidere chi usa i restanti tre mesi (dei nove a disposizione): in questo modo né il padre né la madre si assentano dal lavoro per più di sei mesi, periodo durante il quale ricevono circa l’80% del loro salario. Questa ripartizione, introdotta nel 2000, fu un passo molto importante, sempre su iniziativa dei Social Partners, che si offrirono di essere tassati di più per finanziare questo sistema. E ciò che veramente è cambiata è la predisposizione degli uomini nei confronti del congedo parentale, che prima non era particolarmente utilizzato dai padri se non per un paio di settimane o durante le vacanze estive, ma che con l’introduzione di questo schema divenne comune: attualmente gli uomini utilizzano in media 80-83 giorni del loro congedo, mentre le donne sei mesi, quindi 180 giorni, ma sono decisamente più predisposti e disponibili a prendersi del tempo per occuparsi del neonato. E questa è la chiave. Non dimentichiamo che porre degli ostacoli a chi decide di avere dei figli, e quindi prevalentemente alle madri, che più spesso si occupano dei figli e stanno lontane dal mondo del lavoro per un periodo più esteso, non solo è una questione di diritti umani, perché non garantisce a tutti le stesse opportunità, ma è anche perdente sul piano economico, perché l’alta partecipazione al mercato del lavoro aumenta il Pil. Tra l’altro assicurare pari opportunità fa stare meglio l’intera società, perché dalla diversità presente nel mercato del lavoro si guadagna moltissimo: abbiamo visto come nelle aziende con un’equilibrata rappresentanza di entrambi i generi sia aumentata anche la qualità di quanto svolto dall’azienda, perché la diversità comporta un aumento della qualità".
Quanto ha inciso sull’approvazione della legge in tempi così rapidi la composizione del Parlamento, formato da quasi il 50% di donne? E il fatto che questa legge porti la firma di un uomo secondo lei è un elemento insignificante o significativo?
"Questa è davvero una buona domanda, su cui non ho mai riflettuto. Non penso tuttavia che le due cose abbiano molto a che vedere tra loro: questa proposta di legge fu supportata tanto dagli uomini quanto dalle donne; non ricordo uomini che si siano fermamente opposti. E credo che la chiave stia nel dibattito che è stato affrontato in Islanda negli scorsi anni: gli uomini devono essere più coinvolti nelle questioni riguardanti la parità di genere; non è affare solo delle donne, ma della società intera. E gli uomini devono cambiare il loro atteggiamento nei confronti di questo dibattito: spesso si ha l’impressione che siano spaventati all’idea che venga raggiunta la parità di genere, e ciò si capisce dal fatto che per molto tempo hanno goduto di certe priorità e di un ruolo predominante in certi ambiti, come ad esempio quello della gestione degli affari. Certamente il processo in atto cambierà le opportunità sia per gli uomini che per le donne. Ma noi siamo anche padri e certamente vogliamo che le nostre figlie abbiano le stesse opportunità dei nostri figli".
Lei è padre di tre figlie: questo aspetto ha inciso sul suo impegno per l’approvazione di questa legge?
"È difficile da dire. Sicuramente essere padre di tre figlie significa voler assicurare loro tutte le opportunità che si meritano. Credo però di essere stato maggiormente influenzato da mia madre, che si è sempre molto battuta per le pari opportunità e che ha avuto un’ottima carriera. Credo dunque che la parità di genere mi sia sempre sembrata naturale anche per questo motivo".
Non così naturale da non essere costretti a imporla dall’alto. Anche nella civilissima ed emancipatissima Islanda.