Gli oggetti che raccontano l'odissea dei migranti. In mostra

"Da cittadino, e da studioso, credo che l'immigrazione vada analizzata in modo scientifico", scrive in questo post il Rettore de La Sapienza

Gli oggetti che raccontano l'odissea dei migranti. In mostra
 Migranti immigrati nave barcone - afp

Si è svolto qualche giorno fa un vertice internazionale organizzato a Roma sul tema dei migranti; è la prima riunione del "Gruppo di contatto sulla rotta migratoria del Mediterraneo centrale" ed ha assunto decisioni politiche che investiranno la vita di migliaia di persone. Nelle stesse ore, alla Sapienza, si stavano dando gli ultimi ritocchi alla mostra “Oggetti migranti”, inaugurata il 22 marzo al Museo Laboratorio di arte contemporanea, che propone una collezione restaurata degli oggetti appartenuti ai migranti e ritrovati sull’isola di Lampedusa.

Due momenti diversi per problemi solo in apparenza distanti, ma che rappresentano due facce della stessa medaglia. La salvaguardia della dignità umana in qualunque luogo e a qualunque condizione, passa certamente attraverso l’attività politica e diplomatica, ma è altrettanto vero che acquista la necessaria concretezza, solo se diventa valore condiviso. È indispensabile pertanto il confronto e l'incontro con le realtà, i Paesi di provenienza e, soprattutto, gli uomini, le donne, i bambini che di questo fenomeno sono i primi protagonisti.

Attorno alle “cose” esposte, per qualche settimana, si addensano percorsi interdisciplinari di analisi, con laboratori, seminari e cortometraggi. Proprio il primo di questi racconta del ritorno sull’isola, da uomo libero, del giovane giornalista somalo Zakaria Mohamed Ali. Il suo viaggio non è solo un'occasione per rievocare il passaggio nel Centro di accoglienza, ma una vera e propria ricerca dei documenti suoi e dei suoi conoscenti, come il titolo di studio, il tesserino da giornalista, la maglietta regalata prima di partire verso l’ignoto, la foto dei familiari: oggetti, insomma, che possiamo immaginare custoditi nella pieghe di un vestito e che sono costitutivi della propria identità una volta giunti in terra straniera: “non sono un migrante, ho un nome e un cognome”, questo ci ricorda la mostra.

Nello stesso Museo, esattamente due mesi fa, c’è stata un’altra inaugurazione, sempre dedicata a storie di migranti, ma raccontate attraverso le immagini immortalate dall’obiettivo di uno di loro: Mohamed Keita, un ivoriano fuggito appena tredicenne dalla guerra civile che infuriava nel suo Paese, dopo aver perso entrambi i genitori, e giunto a 17 anni in Italia, dove ha intrapreso la professione di fotografo. 

Le vicende del suo personale viaggio della speranza sono state raccolte nel libro “Il Bagaglio” di Luca Attanasio che racconta in modo chiaro cosa significhi per milioni di persone partire da un Paese dell'Africa subsahariana, o del Medio Oriente, dell'Asia minore o del Subcontinente Indiano e tentare l'approdo verso l'Europa: i migranti forzati, ovvero coloro che sono costretti a lasciare le proprie terre a causa di guerre, persecuzioni politiche, carestie, disastri ambientali, nel 2015 hanno superato la cifra di 65 milioni, un record mai registrato, neanche durante la II Guerra Mondiale.

Esiste un fil rouge che lega queste due mostre: il desiderio di raccontare storie che tracciano e restituiscano ai protagonisti, attraverso i loro oggetti o le foto che li ritraggono, un’identità umiliata e spesso perduta nel viaggio, senza cedere al rancore e alla disperazione. Da spettatore, da cittadino italiano ed europeo, mi colpisce la fiducia verso gli altri e la speranza nel futuro che emergono dalle testimonianze rappresentate dai contenuti espositivi e dalle parole dei superstiti, come pure delle persone impegnate in prima linea nell’affrontare quotidianamente l’emergenza migratoria.

Perché credo che l'immigrazione deve essere prima di tutto studiata

Senza indulgere ad astratti e facili buonismi, sono convinto che l'immigrazione vada innanzitutto studiata, conosciuta e analizzata con rigore scientifico. È necessario comprendere le dinamiche dei processi migratori, studiarne in modo approfondito le cause, organizzare momenti di riflessione seria e rigorosa attorno a questo tema e sono convinto che il mondo accademico debba fare sempre di più la sua parte, cercando di creare un clima che consenta il dialogo e l’inclusione.

Mettere a disposizione gli spazi espositivi dell’università costituisce un’opportunità concreta di riflessione e di testimonianza del valore della persona, nello scenario di un fenomeno collettivo che richiama l’uso di strumenti di conoscenza non consueti nell’accademia. Questa la chiave con cui leggere la presenza in un museo universitario di oggetti di vita quotidiana, documenti e foto che rappresentano i segni di un cambiamento profondo della nostra società.

Un cambiamento del quale va preso atto, ma del quale non può sfuggire il contributo in termini di risorse umane e di stimoli emotivi forti in grado di promuovere un dibattito costruttivo nella popolazione civile.

Ecco che queste iniziative hanno aperto uno squarcio sulle meravigliose potenzialità che questi giovani, se adeguatamente accolti, seguiti, inseriti in circuiti positivi, rappresentano per il nostro Paese. Le loro storie rappresentano un segno di speranza, un simbolo di come possiamo immaginare il mondo di domani; Zakaria, Mohamed, assieme a tanti altri immigrati, ai nostri studenti, ai ragazzi e alle ragazze che popolano il nostro Paese, possono rappresentare davvero la “Meglio gioventù”.