“Vado! Magari cado ma vado.
Sempre nel mezzo di un guado,
in cerca dell’Eldorado. Vado!”
Jovanotti
“E l’ultimo chiuda la porta”. Quando ero piccolo questa frase mi metteva allegria, era il preludio di una risata. Era il finale di una striscia di fumetti, sempre lo stesso. C’era un investigatore, Nick Carter, che assieme ai suoi due aiutanti, l’enorme Patsy e Ten il cinese, risolveva i casi più complessi. E quando i tre se ne andavano, Ten diceva “e l’ultimo chiuda la porta” e l’enorme Patsy la chiudeva provocando un terremoto. Slamm!
Scusate se parto da lontano ma è il mio ultimo post da direttore di Agi ed è un po’ come quell’ultima sigaretta che vorresti non finisse più. Se solo sapessi fumare. So raccontare storie, però. O almeno mi piace farlo. E questa, ve lo dico subito, è una storia che parte con Jovanotti, finisce con Ennio Morricone e ad un certo punto compare pure Baricco. Non lo dico per rovinare la sorpresa, ma almeno sapete cosa vi attende e dopo non protestate. E quelli che temono chissà cosa possa scrivere, si rilassano.
Da quanto tempo lo sapevi, mi hanno chiesto in tanti, che lasciavi Agi? Da un po’, giorni. Ma qualcosa dovevo averla capita mesi fa. Con gli anni ho imparato a leggere i segnali deboli. Come quando vai a vela e non guardi solo la randa e il fiocco, se sono tesi, ma il mare davanti, cerchi di capire dalle increspature se troverai una raffica o la bonaccia dove ti pianterai. Questo istinto da velista anni fa mi era servito per capire tre mesi prima che avrei lasciato la direzione di un mensile che ho amato follemente. Per farla breve c’era la cena di Natale con il grande capo americano che ogni volta mi voleva alla sua destra perché lo divertivano le mie storie di innovazione digitale. Entrato al ristorante andai dritto al mio solito posto e qualcuno mi fermò: tu stai lì, mi disse, indicando il posto più lontano al centro, praticamente le cucine. Ricevuto, forte e chiaro.
Insomma era la fine di settembre, c’era la nostra convention interna e avevo saputo che avrei dovuto parlare in mezzo fra il marketing e le strategie commerciali. Un bel panino, ero il prosciutto. Chiesi di poter parlare alla fine di tutti prima dello spritz. E feci un discorso appassionato che molti in sala interpretarono come un discorso di addio. Dissi solennemente: finché ci sarò, difenderò il vostro diritto di essere giornalisti liberi. O invece dissi: finché potrò difendere il vostro diritto di fare giornalismo, resterò? Non lo ricordo, devo rivedere il video su YouTube uno di questi giorni. Ma qualche giorno fa, prima dell’annuncio dell’arrivo del nuovo direttore, la redazione ha fatto un comunicato bellissimo. Eravamo sotto attacco per una vicenda meschina, mi era stato intimato di non replicare nulla e il comitato di redazione se ne è uscito con un comunicato orgoglioso in cui fra le altre cose diceva in sostanza: mai ci è stato chiesto di scrivere o non scrivere qualcosa per motivi politici. Uno scudo, quel giorno. Una medaglia, adesso.
Intendiamoci, in questo momento non c’è nessuna tristezza, nessuna rabbia. Anzi facciamo i migliori auguri al nostro successore. Trova una grande redazione; e una azienda viva. Si è chiusa una porta, lo avete sentito anche voi lo Slamm! vero?; e si aprirà un portone. Non chiedetemi quale: si aprirà e lo capirò. Il fatto è che ci è piaciuto parlare con voi. Quelli che non sapevano neanche che Agi esistesse e oggi ci vengono a trovare tutti i giorni per provare a capire. E ancora di più ci è piaciuto lavorare con i giornalisti di Agi. Non è un plurale maiestatis il mio: è che Marco Pratellesi ed io siamo arrivati insieme, il 3 ottobre del 2016, ed usciamo insieme oggi. Siamo durati mille e uno giorni, forse la direzione più breve della storia del giornalismo. Mille e uno giorni. Come Gigi Maifredi sulla panchina della Juve se mi passate il paragone. Come un amore di Claudio Baglioni. Come le notti di una celebre raccolta di racconti che infatti mica erano davvero mille e una. Quel numero stava lì per dire che erano infinite. In un certo senso.
L’ultima, giovedì sera, ci siamo dati appuntamento nel prato sotto il Gazometro, accanto alla redazione romana. Avevamo invitato non solo i giornalisti ma tutti quelli che in questi due anni e nove mesi ci hanno aiutato a rilanciare l’Agenzia Italia. Ogni impiegato, ogni collaboratore. Tutti. Non un funerale, ma una festa, la festa di una agenzia di stampa che doveva chiudere ed invece è rinata scommettendo sull’unica cosa che avrebbe potuto salvarla: non il marketing, non la tecnologia, non il branded content (tutte cose necessarie, per carità). Ma il giornalismo. Abbiamo bevuto e ballato, ci siamo abbracciati e commossi. E ci siamo salutati dicendoci una frase che ci eravamo detti qualche mese fa: “in news we trust”. Crediamo nel giornalismo, crediamo nei giornalisti. Di questi tempi è tanta roba.
La mattina avevo avuto l’onore di dirlo, in un bagno di sudata emozione, aprendo la sessione degli Stati Generali dell’Editoria dedicata ai direttori dei giornali. Quando un mese fa avevo saputo che il mio non sarebbe stato un intervento fra i tanti, ma il discorso di apertura, avevo obiettato “ma siete sicuri?”. Nel frattempo era stato annunciata la fine della nostra direzione in Agi, e allora avevo insistito, “non sono più un direttore, trovate qualcun altro”. Io al massimo posso spiegare che sorriso indossare quando all’improvviso ti dicono che il tuo lavoro è finito e ti indicano l’uscita. Sono diventato un cultore della materia, sarà la quinta volta. Niente da fare, un altro non lo hanno cercato. Resti un esperto di innovazione, mi hanno detto per rincuorarmi. E così la mattina di giovedì 27 giugno, in una sala della presidenza del Consiglio, ho detto ad una platea di direttori di giornali grandi e piccoli, come la vediamo, io e Prat, questa storia della crisi dei giornali. Che c’è, per carità. Ma insomma.
Faccio una sintesi. In questi venti anni è cambiato tutto ma in che senso. Il cinema è sopravvissuto, anche se molti film li vediamo a casa o sul telefonino invece che nelle sale cinematografiche. E anche la musica è sopravvissuta, solo che la sentiamo in streaming, e non solo il cd è morto, anche iTunes non stava tanto bene e infatti ha appena chiuso. I libri, invece, i libri sono una eccezione. Gli ebook vanno forte, certo, ma il libro di carta non solo ha resistito: ha rimontato. E’ il nostro momento analogico, il libro, senza notifiche dai social. E al giornalismo che succederà? Sopravviverà e moriranno i giornali di carta? E le agenzie di stampa? E i giornali locali? La crisi è nei numeri, inutile e anche sciocco negarla. Ma non è in crisi il giornalismo. Sono in crisi i giornali che non hanno saputo adattarsi. Guardate la classifica dei siti di informazione più seguiti. Accanto ai grandi giornali, ai grandi gruppi editoriali, ci sono testate ormai consolidate nate sul web nel corso degli ultimi dieci anni. Penso al Post, che considero il modello migliore di un giornalismo di qualità nell’era digitale. Ma anche all’emergente TPI. E alla rete di siti di informazione locale di CityNews che considerata tutta assieme fa più traffico del più importante quotidiano italiano. E più di tutti penso a FanPage, che con quel nome da pagina Facebook tutto sembra meno che una testata giornalistica autorevole, ma il direttore Francesco Piccinini quest’anno ha vinto il premio Ischia e il Premiolino. Una doppietta incredibile. Come ha fatto? Facendo giornalismo. Non è forse giornalismo quello che fanno questi siti, con giornalisti giovani, contratti regolari, bilanci in ordine? Certo, allora il vero tema è che fine faranno le grandi testate, che sono assieme testimoni della nostra storia e baluardi della democrazia. E’ importante saperlo. Bene, secondo noi non finiranno. E non lo diciamo per un riflesso di ottimismo. E nemmeno perché è da un po’ che si parla della famosa ultima copia di carta del New York Times mente io vedo che a Roma gli studenti hanno creato un movimento neanche piccolo attorno ad un giornale di carta, Scomodo, mica ad un blog.
Ma ancora a gennaio il New Yorker è uscito con un lungo saggio in cui va oltre il mezzo (carta, digitale) per andare dritto al messaggio. “Does Journalism Have a Future?” Il giornalismo ha un futuro? E cita due libri, di due autorità assolute, l’ex direttore del Guardian Alan Rusbridger che in un libro dice: non ci sono più molti posti dove si fa informazione di qualità o almeno dove farla è l’obiettivo principale; e Jill Abramson, ex del New York Times, che in un altro libro parla dei “mercanti della verità” e della battaglia che dovremmo fare per accertare e diffondere i fatti. Dice proprio così: “fight for facts, la battaglia per i fatti”. Il tema è quello delle fake news, lo conosciamo bene. Come abbiamo ormai capito che le notizie fasulle non nascono certo con Internet ma è con i social media che diventano fenomeno di massa. E sappiamo che minano la nostra convivenza sociale. In particolare in Italia dove le persone sono convinte di pericoli che non esistono. Siamo il paese dove la distanza fra percezione e realtà è più grande, e non è un bello.
Ebbene questa è la nostra grande opportunità, come giornalisti, come direttori. Combattere per i fatti. Siamo gli unici che possono farlo, che sanno farlo. Andare dietro le dichiarazioni e smontarle, una per una, e dire come stanno le cose. Trovare un senso alle cose a partire dai fatti. Qualche giorno fa la comunità mondiale dei fact checker si è riunita in Sud Africa. Sono in gran parte giornalisti o ricercatori che si sono dati la missione di verificare quello che dicono i politici. E nonostante l’indubbio successo, testimoniato dal fatto che ormai non c’è giornale che ogni tanto pubblichi un fact-checking, hanno detto che il loro lavoro non basta più per affermare i fatti. Bisogna battersi per farsi ascoltare. Qualcuno dice che dovremmo gridare. Non ne sono convinto. Conosco il direttore di un grande quotidiano che parla solo sottovoce e che se stai a due metri, ti avvicini fino a sfiorarlo per non perdere neanche una parola. E secondo me quando parla lui, persino le orecchie dell’interlocutore cercano di ingrandirsi per captare ogni sillaba. La mente, cancella ogni altro suono, si chiama udito selettivo. Non ha bisogno di urlare, quel direttore: è autorevole. Dobbiamo ripartire da lì, ricostruire l’autorevolezza in parte perduta della categoria.
In Agi di questa storia con Pratellesi ne abbiamo fatto una bandiera. Un fact-checking al giorno. E una promessa netta: la verità conta. Abbiamo anche fatto un notevole progetto di innovazione tecnologica, in questi anni, e ringraziamo l’editore per averci creduto e averci dato le risorse necessarie. Siamo diventati un’agenzia mobile first, per dire. Ma la tecnologia non è il fine, è lo strumento che ci aiuta a lavorare meglio. I giornalisti sono il giornalismo che facciamo. Non le app.
Il bilancio di questi giorni lo ha fatto l’editore di Agi, l’Eni, il giorno in cui ci ha congedati. Cito qualche numero: le notizie sono aumentate del 66 per cento, le citazioni su stampa e tv del 71, le conversazioni sui social del 74, l’uso dell’hashtag #agi su Twitter del 10 mila per cento, gli utenti del sito, di oltre il 500 per cento. Ma ci sono due dati per noi ancora più significativi: le dieci assunzioni e le undici promozioni. In tempi di tagli, abbiamo portato a bordo tanti ragazzi di talento e abbiamo promosso di grado alcuni fra i migliori di coloro che abbiamo trovato. Auguriamo di cuore a Mario Sechi di fare di meglio.
Abbiamo anche ottenuto due medaglie: una ce l’ha data il Quirinale, per la mostra fotografica sul 1968, Dreamers. L’altra è arrivata qualche giorno fa da NewsGuard, una organizzazione internazionale che misura credibilità e trasparenza: ci hanno promosso in tutte le nove categorie, solo 4 testate su 120 ce l’hanno fatta.
Abbiamo anche fatto degli errori, certo. Cercando i fatti capita. Ma ci siamo scusati sempre pubblicamente e ne abbiamo lasciato traccia. Non li abbiamo nascosti come la polvere sotto il tappeto. E lo voglio dire, in un paese in cui è sempre colpa degli altri. Gli errori sono stati colpa mia. Non nostra, mia. Marco Pratellesi è stato il miglior compagno di avventura che potessi trovare e se oggi ho un desiderio è quello di tornare a lavorare al suo fianco.
La sigaretta sta finendo. E io avrei ancora tante cose da dirvi. Ma non è davvero finita finché hai una storia da raccontare e qualcuno a cui raccontarla. Ecco, questo è Baricco, ve lo avevo detto. Questa frase mi accompagna da una vita. E’ il mio portafortuna ogni volta che chiudono tutti i miei sogni in degli scatoloni avvolti nel nastro adesivo. Non finisce qui ma la prossima storia in questo momento non la conosco. Quando i miei figli mi hanno chiesto “e adesso che farai papà?”, ho pensato di leggere loro il testo del comunicato stampa che mi destina alla guida di un progetto sulle startup, ma poi ho pensato che non l’avrebbero capito. Che mi avrebbero guardato come si fa con quelli che ti sparano una supercazzola. Sono piccoli. Intendiamoci, il progetto non è una scatola vuota. Non è un binario morto. È ingiusto chi liquida così la faccenda. La verità è che non c’è una scatola e che del binario non si vedono le traversine. Piuttosto è un foglio bianco, con un astuccio di matite colorate. Qualcuno deve aver intravisto il mio animo da bambino e ha pensato di farmi un regalo. Molto apprezzato, davvero.
Poi qualche sera fa ho capito, finalmente. Stavo uscendo da Caracalla, c’era stato il meraviglioso concerto di Ennio Morricone. Anzi, non era ancora finito. L’orchestra stava suonando il suo brano più bello forse, Gabriel’s Oboe, il tema di The Mission. Era una magnifica serata estiva, la luna piena teneva lontana la notte e le rovine di Roma antica tremolavano come se fossero vive. Ho percorso il viale verso l’uscita con cuore gonfio di lacrime e di gioia, ho pensato ai miei capelli ormai bianchissimi come quelli di un inventore pazzo di un film molto bello e allo sguardo ancora innamorato e sognante che per fortuna resiste a tutto. E solo allora ho capito cosa avrei detto ai miei figli. Cosa farò.
Ritorno al futuro.
Vado! (non ci fermeranno mai)
Vado! (non ci fermeranno mai)
Vado! (non ci fermeranno mai)
Jovanotti