Bologna, 2 lug. - È successo davvero: la Cina ha fatto cancellare dalla dichiarazione conclusiva del G20 il plauso corale alla decisione del suo governo di modificare il proprio regime di cambio, in favore di una più grande flessibilità dello yuan. Un'azione last minute: modificati i commenti positivi dalla versione in inglese, questi figuravano ancora - durante la notte - nel comunicato in francese. Non si parla quasi d'altro, sui mercati internazionali, eppure il governo del Dragone non ha voluto menzionare il suo yuan per rimarcare la propria assoluta sovranità sulle decisioni in materia monetaria. I cinesi non vogliono che si parli dello yuan, né bene né male, tantomeno si vuole ammettere di aver apprezzato lo yuan (dello 0,51% in una settimana) a causa delle pressioni del G20 per la lettera di Barack Obama che ha invitato a rivalutare la moneta cinese per aiutare la ripresa mondiale. La Cina gode e si vanta di una nuova assertività: dobbiamo imparare a guardare a questo nuovo stile di governo globale à la chinoise in un'ottica di relazioni internazionali per come i cinesi le intendono, piuttosto che di teorie diplomatiche eurocentriche. I poteri economici ed intellettuali scivolano di peso dall'ovest verso l'est, ma un cambiamento ancora più grande riguarda lo spostamento dalla cultura politica elitaria cinese (marxismo e/o confucianesimo) alla cultura popolare globale che la nuova Cina condivide con il resto del Globo. Non è che la Cina stia proponendo un originale 'modello cinese' di sviluppo e giustizia, ma molto più prosaicamente la RPC si sta unendo alla società mondiale dei consumatori che saltabeccanti acquistano computer e televisori, inseguendo immagine e ruoli che rimbalzano dagli schermi delle tv e del cinema. La nuova visione cinese del mondo è quindi più modellata dai media che dalle rispettabilissime ideologie di un tempo. Il consumismo giallo ha conseguenze sociali e ambientali di rilievo. Fino a poco tempo fa – più o meno parliamo di una decade – la signora ed il signor Chang consumavano tanto quanto era loro possibile, rimanendo entro le risorse sostenibili del nostro pianeta, ma il problema è nato quando – come natura insegna sia normale – essi hanno voluto prendere il passo con la signora ed il signor Jones, dell'altro lato del Pacifico: brutte nuove per il pianeta, perché se tutti tutti mangiassimo, comprassimo e viaggiassimo come questi ultimi, avremmo bisogno di almeno 5 pianeti terra per sostentarci. Negli ultimi anni, gli USA hanno fatto shopping fino a franarne - economicamente parlando - anzi fino a farne indigestione: piagati dai debiti, dall'obesità e dal ricorso sempre più frequente alla forza militare per mantenere il proprio lifestyle. L'Europa troppo conservativa e pigra per continuare il lavoro iniziato da altri, le grandi catene di produzioni 'offerenti' hanno visto Shanghai e la Cina tutta come una specie di Bengodi: mentre le aziende informatiche ed i lobbisti politici prendevano il primo treno per Pechino - e gli imprenditori volavano a Guangzhou - i vari Kentucky Fried Chicken, McDonald's e Starbucks via Louis Vuitton, Gucci e Chanel, a braccetto con Prada e la Rolex s'incontravano a banchettare nei mall di Shanghai, la città più mass globalizzata di modernità in Cina, territorio delle più lussuose boutiques, dei buildings più alti ed arroganti, il primo circuito di formula uno della nazione, delle più grandi fabbriche automobilistiche, il secondo porto più trafficato del mondo, crocevia di orde di venditori di sogni e di lifestyle americano, se non occidentale tout court. Ogni anno aprono in Cina nuovi Wal-Mart americani, Carrefour francesi, Tesco britannici e Ito Yokado giapponesi, in aspettativa di una domanda prevista in crescita vertiginosa mano a mano che una parte sempre maggiore della popolazione rurale arrivi nelle grandi città ad ingrassare la classe media cinese. Ingrassare: effetto delle nuove attitudini alimentari. I giovani cinesi urbani, pazzi per le patatine fritte, gli hamburger ed il pollo fritto - che vanno dritti verso obesità, diabete e malattie vascolari – sono ora quel 15% della popolazione di obesi, così rari da trovarsi un tempo. Per ingrassare il proprio bestiame, la Cina importa quantità sempre più rilevanti di soia – dal Brasile per buona parte – accelerando il disboscamento della foresta Amazzonica. Così come accade per le cosiddette città abbienti, lo stile di vita da jet set ad alto contenuto di proteine e di ottani, viene pagato altrove ma – in definitiva – da tutto il pianeta, anche da quelle parti che consumano poco o niente.
di Katia Gruppioni
Katia Gruppioni è responsabile marketing, comunicazione, relazioni internazionali e istituzionali per le aziende del gruppo del Sira Group (Italia, Cina, Russia, Romania). Pubblicista e saggista, esperta di Cina, membro del Comitato Scientifico di Osservatorio Asia.
La rubrica "La parola all'esperto" ha un aggiornamento settimanale e ospita gli interventi di professionisti ed esperti italiani e cinesi che si alternano proponendo temi di approfondimento nelle varie aree di competenza, dall'economia alla finanza, dal diritto alla politica internazionale, dalla cultura a costume&società. Giovanni Andornino cura per AgiChina24 la rubrica di costume&società.
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