Milano, 01 apr. - E' notizia di questi giorni che i fondi previdenziali cinesi si apprestano ad ottenere l'autorizzazione ad investire in fondi di private equity stranieri. Secondo quanto annunciato dal vice presidente del del consiglio nazionale dei fondi pensione, il processo autorizzativo sarebbe alle battute finali. A tutt'oggi i fondi previdenziali cinesi possono investire fino al 20% del portafoglio all'estero, grazie ad una misura di liberalizzazione che risale allo scorso anno. Ma fino ad ora i fondi di Private Equity non erano tra le asset class ammesse tra gli investimenti esteri consentiti.
L'apertura al private equity internazionale è una notizia di non poco conto. Se da un lato, infatti, il potenziale di investimento è molto significativo (l'ammontare in gestione raggiunge già oggi i 100 miliardi di euro ed è in rapida crescita), dall'altro la situazione del mercato del private equity domestico presenta qualche elemento di criticità sul quale la misura in questione interviene come tentativo di soluzione, almeno parziale.
Il private equity in Cina era uno strumento scarsamente diffuso fino a 3-4 anni fa. I fondi domestici, in valuta locale,sono stati autorizzati solo a partire dal 2006. Ad operare in Cina erano solo i fondi esteri, ed in particolare quelli gestiti da "bananas", quegli americani di origine cinese che si sono trovati nella posizione ideale per sfruttare il boom dell'economia dell'impero di mezzo.
L'abbondante liquidità e le attese di guadagno facile hanno fatto si che in pochi anni il settore si espandesse a dismisura. Nel 2008, l'anno del boom, sono stati raccolti in Cina fondi per oltre 60 miliardi di dollari, scesi per la crisi nel 2009 a 12, ma risaliti nel 2010 a poco meno di trenta. Nel frattempo di investimenti in aziende ne sono stati realizzati in misura molto minore: nove miliardi nel 2008, otto e mezzo nel 2009 e poco più di dieci nel 2010. Nelle università di finanza Usa questo fenomeno lo chiamano "dry powder": si tratta dell'accumularsi di fondi da investire, che non riescono a trovare sbocco sul mercato.
Questa ridotta capacità di investire ha una spiegazione di gran lunga prevalente: l'irresistibile attrattività della borsa. Gli imprenditori cinesi, da quando nel 2008 è stato riaperto il canale delle quotazioni sul mercato azionario, hanno immediatamente colto l'opportunità di raccogliere capitale di rischio a condizioni estremamente vantaggiose. I multipli che si possono spuntare in borsa, in fatti, sono incredibilmente elevati (40-50 volte gli utili, contro i 10-20 dei mercati di questa parte del mondo), soprattutto per aziende di dimensione contenute e con buone prospettive di crescita. E sono proprio le aspettative di crescita delle aziende che spiegano buona parte di questi multipli. Un'altra parte però, difficile dire quanto, è legata al fatto che la presenza di controlli ai movimenti di capitale che impediscono agli investitori retail cinesi di investire oltre frontiera, fa sì che la massa di risparmio alla ricerca di impiego fruttifero, e incoraggiata da alcuni anni di vacche grasse, prema sui listini di Shanghai e Shenzhen, determinando una bolla speculativa sulla cui entità è difficile fare stime, ma che indubbiamente esiste.
Avendo in mente quello che possono spuntare in borsa, gli imprenditori, di fronte alle offerte dei fondi di investire nel capitale delle loro aziende (in cina i deal di maggioranza sono molto rari e quasi sempre le operazioni si fanno con i fondi in minoranza), avanzano richieste che per i fondi sono difficilmente accettabili. Un quadro senza dubbio poco rassicurante. Se il "dry powder" persiste, prima o poi i gestori di fondi daranno costretti a investire comunque per non scontentare chi ha affidato loro i propri quattrini, ma allora le performance saranno a rischio. Oppure decideranno di restituirli, mettendo comunque il settore in una situazione di imbarazzo e minandone le prospettive di sviluppo. Ecco allora la misura volta ad allentare la pericolosa tensione che si va a creare: consentire al principale investitore in fondi di private equity cinese, i fondi pensione pubblici, di investire in fondi di private equity stranieri. Un segnale ulteriore della forte attenzione delle autorità di Pechino alla stabilità dei mercati finanziari, messi a rischio, paradossalmente, dal convulso processo di crescita dell'economia.di Lorenzo Stanca
Lorenzo Stanca, salernitano, 47 anni, tra i founding partners di Mandarin Capital Partner, il fondo di private italo-cinese che ha cominciato ad operare a fine 2007, Lorenzo Stanca vanta una carriera venticinquennale in istituzioni fianziarie di alto profilo.Precedentemente all'esperienza di Mandarin, Stanca era stato responsabile delle Strategie Operative al Sanpaolo Imi. Al Sanpaolo era arrivato nel settembre del 2005 proveniente dal gruppo UniCredito dove era stato Capo dell'ufficio studi e poi capo dell'area mercati in UniCredit Banca Mobiliare, la banca di investimento del gruppo, di cui era stato uno dei fondatori.
E' presidente dal 2006 del Gruppo Economisti di impresa, l'associazione italiana degli economisti che lavorano in azienda sia negli uffici studi che in altre posizioni. Lorenzo Stanca è autore di numerosi paper su riviste accademiche e co-autore di libri di economia e finanza (di recente è stato tra gli autori di "Cina: la conoscenza è un fattore di successo" e "L'elefante sul trampolino" pubblicati dall'Arel), oltre a pubblicare frequentemente articoli su riviste e giornali economici.
La rubrica "La parola all'esperto" ha un aggiornamento settimanale e ospita gli interventi di professionisti ed esperti italiani e cinesi che si alternano proponendo temi di approfondimento nelle varie aree di competenza, dall'economia alla finanza, dal diritto alla politica internazionale, dalla cultura a costume&società. Lorenzo Stanca cura per AgiChina24 la rubrica di economia e finanza.
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