Di Adolfo Tamburello
Napoli, 15 set. - La manualistica corrente non si sofferma molto sui successori di Qianlong e ciò dà l'impressione per un verso che finisse con lui l'"autocrazia" Qing e per un altro che i suoi successori, dai regni molto più brevi, fossero per di più figure scialbe e insignificanti che magari causassero loro il declino della dinastia e la prostrazione della Cina e dell'impero. In realtà fu Qianlong a prostrare la Cina, se non ancora l'impero, e a prostrarla al punto che i suoi discendenti poco riuscirono a rialzarne le sorti malgrado l'impegno profusovi.
Almeno questo fu il caso di Jiaqing (r. 1796-1820), erede diretto di Qianlong, suo quindicesimo figlio, nato nel 1760 da una concubina di nazionalità Han, figlia di un alto funzionario cinese. La madre lo allevò con cura e Yongyan, questo il suo nome, crebbe con una raffinatissima cultura cinese e mancese (per parte e impegno del padre) e, tredicenne, fu segretamente designato erede imperiale, e sembra fosse l'anno in cui Qianlong incontrava il giovane Heshen ed era preso per lui da viva e calda simpatia. Fra Yongyan ed Heshen di dieci anni maggiore d'età non doveva mai scorrere buon sangue, tanto più che Heshen con la sua fulminea carriera ai vertici del potere accarezzò presto l'ambizione di succedere a Qianlong come sovrano. Qianlong tuttavia nominò ufficialmente Yongyan nel 1789 principe ereditario e nel 1796 abdicava per lui, benché non gli cedesse per il momento le redini del potere e continuasse a governare con Heshen che si vestiva dei panni di reggente.
Morto Qianlong nel 1799, le fortune di Heshen precipitarono giacché Jiaqing non esitò a indirgli un processo che lo condannava a morte lenta e per sottrarlo alla quale nei suoi pieni poteri di sovrano gli concedeva il grazioso invito al suicidio. La morte "volontaria" di Heshen salvava così la sua famiglia dalla strage di rito e mandava indenni tanti suoi conniventi da una gran purga che Jiaqing avrebbe dovuto estendere ben oltre la Cina: una magnanimità nel rispetto del padre che lui giudicò corresponsabile dei tanti misfatti che erano stati per lunghi anni perpetrati a corte e nell'impero. Jiaqing, a spiegazione della sua clemenza, esplicitò una "riforma onnicomprensiva", nota come Xianyu weixin o, dal nome della sua era, "riforma" o "restaurazione di Jiaqing", secondo il dettato dell'integrità e della trasparenza opposta alla corruzione e all'intrigo e coinvolgente i campi della moralità, della burocrazia, dell'esercito, della sicurezza e del fisco. Per l'adesione a essa e la sua parziale attuazione il sovrano richiamò vecchi ministri che si erano opposti ad Heshen ed erano stati via via esautorati (Wang Jie, Dong Gao, Zhu Gui, Nayancheng); invitò a pubbliche discussioni di intellettuali e provvide a un esteso ricambio della burocrazia civile e militare con speciali esami concorsuali e ancora col ricorso alla pratica dell'acquisto di cariche su raccomandazione.
Sembrava rivivessero i tempi dei Song meridionali con sul trono un autentico imperatore purosangue cinese e purissimo confuciano. Non erano però iniziative e successi che lo facessero accettare da tutti i suoi sudditi: infuriava la rivolta del Loto Bianco che Heshen e la sua cricca avevano tardato a soffocare e che il generale mancese Eldenbao, fedele di Jiaqing, spense sanguinosamente nel 1805. Molta popolazione rurale e possidenti terrieri non condivisero unanimi le soluzioni frattanto prese di essere difesi dalle scorrerie dei ribelli asserragliati in villaggi murati e costretti a convivere con milizie armate e segugi di taglie per le esecuzioni di capi veri o presunti della rivolta. Vi fu sì chi parteggiò per il sovrano vincente sui ribelli, ma in numero superiore chi abbracciò la causa di costoro ingrossandone i quadri. Furono pressoché continuative le successive sommosse e con ben due tentativi di assassinare Jiaqing, e una delle due nel 1613 con un assalto al Palazzo Imperiale respinto dal coraggio del principe Minning, futuro Daoguang. Neppure la corte era unanime col sovrano, divisa fra i suoi sostenitori e i nostalgici di Qianlong ed Heshen, degli scambi di doni, delle feste a corte, degli spettacoli a Pechino, degli stessi viaggi imperiali. Con Jiaqing era tutto lavoro, frugalità e parsimonia, niente doni intesi a ingraziarsi favori, niente viaggi, niente feste e persino la capitale spenta durante le ricorrenze e senza pubblici trattenimenti su patrocinio imperiale.
Le finanze dello Stato ebbero un momentaneo sollievo coi risparmi di spesa e soprattutto col recupero delle sostanze di Heshen e quelle di altri ottenute con confische, sequestri e "volontarie" restituzioni. Jiaqing riabbassò le tasse agrarie e ne beneficiò indubbiamente il mondo contadino e l'economia del paese coi rialzi di produzione. Effettivi ed efficaci interventi idraulici ristabilirono difese dalle periodiche esondazioni e navigabilità piuttosto regolare di fiumi e canali. Anche la pirateria finì in gran parte sgominata nel 1809, e le città della costa e quelle fluviali respirarono una ripresa. Tutto questo però per un certo tempo.
Al contrario ben pochi effetti e più effimeri sortirono gli editti contro l'importazione dell'oppio e il suo smercio che continuò ad accrescere sia l'impoverimento di ormai vasti strati delle popolazioni urbane dedite al fumo della droga e sia la delinquenza nelle città tra "famiglie" di grandi e piccoli incettatori e spacciatori. Furono anche a lungo discusse le proposte di legalizzare il commercio dell'oppio che avrebbe immediatamente spiazzato contrabbando e contrabbandieri con l'abbassamento del prezzo di mercato della droga, ma le obiezioni sulla difesa della salute l'ebbero vinta su quelle di un'economia di Stato che andava a rotoli e della sicurezza dell'ordine pubblico da tutelare. Poco potevano a questo punto fare questo le polizie locali che tra l'altro erano frequentemente rinnovate ma altrettanto spesso rimaste o tornate a essere sotto l'autorità di personalità colluse. Fra l'altro le maggiori delusioni sul rendimento delle amministrazioni civiche le davano proprio le nuove classi impiegatizie reclutate per acquisto delle cariche su raccomandazione che intendevano subito rifarsi delle spese di compera del posto con profitti clientelari e larghe quote sottratte alle riscossioni fiscali.
Continuativamente carenti rimanevano altresì le misure prese sul commercio estero e la politica estera in generale. Fallita l'ambasceria di Lord Amherst nel 1816 per via del rifiuto al kotou, la Compagnia inglese delle Indie Orientali confidò in crescendo sulle risorse del contrabbando favorito dagli stessi mediatori cinesi e naturalmente con l'oppio che rimaneva la merce più richiesta. Vigente il veto ai cinesi di insegnare la propria lingua agli stranieri anche i rapporti di comunicazione fra abitanti e occidentali erano assai precari e di regola improntati alla diffidenza. Ne faceva amare esperienze l'inglese presbiteriano Robert Morrison (1782-1834), primo missionario protestante in Cina, arrivato dall'America a Macao nel 1807. Espulso dai portoghesi, riparava a Canton sotto protezione statunitense e aveva molte difficoltà ad apprendere il cantonese per tradurre la Bibbia nella lingua parlata del luogo. Intendeva cominciare a diffonderne il testo presso la popolazione oralmente e attraverso scritti che ne dessero una traslitterazione in caratteri latini da leggere in pubblico o in privato.
Il cristianesimo, rimasto dichiarato dottrina sovversiva, era da Jiaqing ancor più severamente condannato, anche il servizio civile a corte dei lazzaristi cessava nel 1805. Duramente perseguitato nelle province, ne erano espulsi i missionari, i convertiti cinesi indotti a bastonate all'abiura, molti all'esilio nell'Ili o in Mongolia, molti martirizzati. Tardava per il momento la sollevazione indignata delle nazioni cattoliche europee e andrebbe ancora studiato il disorientamento delle autorità portoghesi di Macao all'afflusso dei missionari scacciati e dei profughi cinesi cattolici.
15 SETTEMBRE 2017
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