Di Adolfo Tamburello
Napoli, 29 lug. -Il 23 dicembre 1717 (per il nostro calendario) Kangxi (1654-1722) convocava figli e maggiorenti e pronunciava il suo commiato ufficiale dal trono, benché continuasse a vivere e regnare per altri cinque anni. Il testo, unico nella storia della Cina lasciatoci da un sovrano in una stesura di proprio pugno, Jonathan D. Spence lo faceva conoscere in traduzione nel 1974 e da noi col volume pubblicato da Adelphi nel 1986 Imperatore della Cina. Autoritratto di K'ang-hsi.
Spence premetteva che fu una "combinazione di eventi" a rendere il sovrano quell'anno "insolitamente consapevole sia della morte sia della storia: l'Imperatrice Madre stava morendo; egli stesso soffriva di attacchi di vertigine, aveva i piedi talmente gonfi e doloranti che riusciva appena a camminare, e gli aspri e faziosi contrasti coi suoi figli per la successione al trono divampavano di nuovo". Aveva destituito dalla successione uno degli eredi legittimi e non intendeva recedere dalla sua decisione. I più vicini a lui lo pressavano come dichiarava: "ci sono funzionari che, spinti dal timore che la mia vita possa finire bruscamente, hanno presentato memorie richiedendo che io nomini un Erede Legittimo che condivida le mie mansioni"; ma obiettava, tranquillizzando: "tutto il potere del paese deve essere accentrato in una sola persona. Negli ultimi dieci anni ho scritto per esteso (e lo custodisco sotto sigillo) ciò che intendo fare e quali sono i miei pensieri, anche se non ho ancora finito. Nominare l'Erede Legittimo è un problema grave: come potrei trascurarlo?".
Il problema grave che si aggiungeva alle angustie per l'Imperatrice Madre (la nonna che lo aveva allevato) e ai mali fisici che lo affliggevano non era forse neppure tanto quello di tornare a designare un erede legittimo quanto di mettere a tacere chi lo sollecitava a dividere il potere con tale erede. Autocrate e despota di taglio e lungo corso, era indignato che gli fosse chiesto di cessare di fare il monarca e adattarsi a un ruolo di "co-imperatore".
L'anno in corso non era stato particolarmente cruciale dal punto di vista politico per meritargli critiche o censure. Non era nemmeno ancora arrivata a Pechino la notizia dell'invasione zungara del Tibet (che sarebbe giunta mesi dopo) e gli risultava che tutto l'impero fosse in pace. Poi in Cina l'economia era fiorente e le opere pubbliche eseguite e in corso salvaguardavano da alluvioni e siccità; la popolazione (calcolabile ora in circa 130 milioni) era uscita dalla fame e le sue condizioni continuavano a migliorare coi fermi da lui imposti dal 1711 agli aumenti fiscali e la cui applicazione si estendeva di anno in anno da provincia a provincia. Fonte d'amarezza era stata sicuramente la revoca dell'editto di tolleranza del cattolicesimo emessa quell'anno e il veto posto all'indiscriminata prosecuzione delle attività missionarie, ma erano stati provvedimenti doverosi davanti alle inammissibili ingerenze e richieste del papato e dei suoi emissari e nessuno certo glieli rimproverava (su questi punti torneremo).
Perché, dunque, tante insistenze per fargli nominare un erede e, di più, farlo partecipare al trono? In quanto al suo governo, chiariva: "Tutti gli Antichi solevano dire che l'Imperatore dovrebbe interessarsi dei princìpi generali, senza necessariamente occuparsi dei particolari minuti. Personalmente mi trovo in disaccordo. Trascurare un solo dettaglio potrebbe nuocere al mondo intero, la negligenza di un momento potrebbe danneggiare tutte le generazioni future. […] Perciò io mi curo sempre scrupolosamente dei particolari. Per esempio: se oggi tralascio un paio di faccende e le lascio in sospeso, domani ci saranno un paio di faccende in più. E se domani non ho voglia di occuparmene, vuol dire che si accumuleranno ulteriori ritardi. Il lavoro dell'imperatore è di grande importanza e nulla dovrebbe essere rimandato: io perciò mi curo di tutte le faccende, piccole o grandi che siano. Anche se in una memoria c'è un solo carattere sbagliato, prima di inoltrarla io lo correggo sempre. Non tralasciare nulla, è questa la mia natura".
Temeva che fosse per lo scrupolo e lo zelo giudicati eccessivi che qualcuno dei più stretti collaboratori mirava ad "alleggerirgli" il lavoro o sperava di avere a che fare con una "spalla" più condiscendente? Lui assicurava comunque nel commiato: "Procedo ogni giorno come di consueto, e mi concentro sul governare come si deve".
Quella del secondo e definitivo erede da nominare sarebbe rimasta una questione aperta, e di quanto affermava di custodire "sotto sigillo" non si sarebbe saputo più nulla.
Il primo erede al trono era stato Yinreng. Spence premetteva: "su questo bambino, Yin-jeng, K'ang-hsi riversò un enorme carico di struggimento, d'amore e di aspettative […] era il centro dell'attenzione e divenne inevitabilmente il frutto di un groviglio di schieramenti faziosi che avvelenarono la vita di corte e divisero le schiere della nobiltà ereditaria manciù […]. Gli irosi dibattiti e i tormentati editti degli ultimi anni di K'ang-hsi ci introducono in un mondo distorto di amore e di odio, ove le aspettative erano state palesemente tradite nel modo più crudele, e un uomo intelligente e spiritoso era diventato a tratti isterico e spietato. K'ang-hsi accenna a tentativi d'assassinio commessi contro la sua persona. E accenna, neppur tanto velatamente, di sospettare che il suo adorato figlio Yin-jeng, indulgesse a pratiche omosessuali, cosa che K'ang-hsi giudicava ripugnante: fece giustiziare tre cuochi e valletti che erano stati visti nel palazzo di Yin-jeng, ordinò agli informatori segreti di rintracciare il 'numero uno', l'uomo che era implicato nell'acquisto di ragazzi nel Sud …".
Come si sa, alla morte di Kangxi il 20 dicembre 1722 la successione sarebbe stata presa da Yongzheng, e oggi gli storici continuano ancora a discutere (e dubitare) che la sua elezione rientrasse fra le ultime volontà di Kangxi espresse nel definitivo commiato sul letto di morte con le parole che era il "Quarto Figlio" Yinzhen ad avere "un carattere nobile e mi assomiglia profondamente: egli possiede certamente le doti per ereditare l'Impero. Sia lui a succedermi al trono e a diventare Imperatore".
Kangxi moribondo pronunciò veramente un secondo e definitivo "commiato"? Con quello del 1717 aveva inteso invano sventare la sorte toccata a tanti suoi predecessori che quando "erano deboli e moribondi, facevano venire qualche funzionario letterato perché scrivesse qualcosa a suo piacimento. Per me è diverso. Vi faccio sapere in anticipo…". Ma si ripeté lo stesso dei tanti sovrani che l'avevano preceduto, con l'unica differenza che il suo testo del 1717 fu di traccia per quello del commiato definitivo e del quale Spence dava pure la traduzione. Le aggiunte rispetto al precedente non riguardavano solo la designazione di Yongzheng. Una, per esempio, recita: "ho cercato di emulare i saggi sovrani delle tre Dinastie", quando invece sulla loro storia (dagli Xia agli Zhou) Kangxi si era pronunciato che non erano "del tutto attendibili" perché coprivano "tutto il periodo di cui i Ch'in bruciarono i libri". La precauzione degli anonimi rimaneggiatori era in questo caso quella di trasmettere memoria della storia tradizionale lasciata intoccata dalle sue diffidenze e di presentarlo al contrario ligio a tradizioni, leggende e superstizioni; era così anche omesso il brano: "La mia nascita non ebbe niente di miracoloso - né qualcosa accadde quando crebbi. […]. Non ho mai permesso che si insistesse a parlare di influssi soprannaturali come quelli che sono riportati nelle Storie dinastiche: stelle propizie, nuvole fauste, unicorni e fenici, erba chih e simili augurii, oppure perle e giade che ardono sulla facciata del palazzo, o libri divini mandati in terra per manifestare la volontà del Cielo. Sono tutte parole vuote, e io non sono presuntuoso a tal punto".
A proposito del governo, nella nuova stesura rimaneva solo del vecchio commiato: "Ho lavorato con scrupolo incessante e con gli occhi bene aperti, senza mai concedermi un momento di riposo o di ozio". Almeno questo, ma erano omesse pure le seguenti linee-guida di governo del vecchio testo: "… avere riguardi per i funzionari e agire come un padre nei confronti del popolo […], essere sempre scrupolosi e prudenti e mantenere l'equilibrio fra indulgenza e rigore, tra principio e convenienza".
Ignoriamo se o quanto i collaboratori a lui più vicini riconoscessero quest'equilibrio di cui si era sempre fatto vanto. Era stato solito ripetere "concedere la vita e dare la morte - questi sono i poteri di un Imperatore. Egli sa che gli errori amministrativi negli uffici del governo possono essere rettificati, ma che un criminale giustiziato non può essere riportato in vita […]. Egli sa, inoltre, che talvolta il popolo deve essere richiamato alla moralità dall'esempio di un'esecuzione […]. In tempi di guerra si rendono necessarie esecuzioni per vigliaccheria o insubordinazione […]. Il massimo della pena, la morte lenta, deve essere applicato in caso di tradimento, come stabilisce il Codice penale". Ai propri occhi era stato un sovrano equo e persino clemente: quando si erano avuti i casi "di uomini come quelli che tramarono contro di me nella crisi dell'Erede legittimo e che dovettero essere uccisi immediatamente e segretamente senza processo, dove possibile sono stato clemente. Il sovrano deve sempre vagliare attentamente un ordine di esecuzione, e lasciar spazio alla speranza che gli uomini diventino migliori, se si concede loro il tempo. Nella caccia si possono uccidere tutti gli animali presi nel cerchio, ma non sempre si ha cuore di colpirli mentre stanno lì fermi, circondati e sfiniti".
Adolfo Tamburello
*Adolfo Tamburello già professore ordinario di Storia e Civiltà dell'Estremo Oriente all'Università degli Studi di Napoli 'L'Orientale'.
29 LUGLIO 2016
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