I SONG MERIDIONALI

di Adolfo Tamburello*


Napoli, 26 mar. - Epoca di grandi apici istituzionali, economici, sociali, culturali e artistici, quella dei Song, anche nella sua seconda fase dei “Song meridionali” (1127-1279), non brillò per grandi nomi imperiali, sì per il merito di proseguire la costruzione di uno stato burocratico centralizzato che attraversò  i difficili processi di sviluppo degli stati moderni con l'occhio vigile non tanto più sulla tenuta del tesoro della corona quanto sulla gestione governativa e amministrativa del paese. Ne risentirono positive influenze gli stessi imperi o regni sino-barbarici loro confinanti che in parte seguirono il modello dello Stato Song.

Sempre più sovrani figurarono solo come capi di stato; di persona o più spesso i loro Consigli privati sceglievano i capi di governo come primi ministri e li munivano di ampie deleghe all'esercizio e al coordinamento delle funzioni amministrative su linee politiche, direttive e programmi di movimenti di gruppo al momento maggioritari. Alcuni storici si interrogano su una prima timida genesi dei moderni partiti politici.

Gli statisti prendevano così sempre più di frequente rinomanza nella cronaca politica e nella memoria storica: durante i Song “settentrionali”, le figure di Fan Zhongyan (989-1052), Li Gou (1009-1059), Ouyang Xiu (1007-1072), Sima Guang (1019-1086), Wang Anshi (1021-1086), Cai Jing (1046-1126); sotto i Song meridionali, Yue Fei (1103-1141), Qin Gui (1090-1155), Han Tuozhou (1152-1207), Shi Miyuan (1164-1233), Jia Sidao (1213-1275), Chen Yizong (1236-1283): una fila di uomini che con tanti altri in pochi arrivavano a una serena vecchiaia e alcuni pagavano l'impegno politico con la vita. Il clima era aspro e le condanne ed esecuzioni capitali non lesinate a chi cadeva in disgrazia o combatteva per una causa che si rivelava perdente. Tassativa poi la fine riservata a politici o ideologi eterodossi o “sovversivi” come i pregiudicati di rivolte su utopistici ideali di uguaglianza sociale di ispirazione laica o religiosa (taoista, buddhista, ora anche manichea e cristiano-nestoriana).

Insediata presso Nanchino, prima che l'area di Hangzhou fosse recuperata nel 1134 dai Jin, la corte ebbe residenza definitiva a Linan, presso l'odierna Hanzhou, benché la città prendesse il nome di Xinzai (“sede transitoria”, la Quinsai celebrata ancora da Marco Polo) nella vana speranza mantenuta per tutta la dinastia di una riconquista di Kaifeng.

La posizione, prima di supino vassallaggio ai Jin, poi di sole ma sempre pesanti tributarietà dal 1165, tenne in permanenza oscillante il pendolo dell'agone politico fra riarmo e belligeranza da un lato e difesa e conciliazione dall'altro, in un permanente dispendio in investimenti militari che corrose la pur fiorente economia, messa intanto duramente alla prova da una corruzione dilagante e difficile da combattere nella grande imprenditoria e nella burocrazia militare e civile, centrale e periferica, che superava ripetutamente i limiti di guardia (già calcolati sul 30%), e di cui erano pozzi senza fondo gli appalti delle grandi opere pubbliche, l'evasione fiscale, la falsificazione dei bilanci, estesa alle istituzioni e opere sanitarie, assistenziali e di beneficienza. Sembra leggere le pagine di un nostro libro di oggi. La finanza precorreva le odierne quotazioni di ditte e corporazioni e si apriva sempre più alle operazioni inflattive favorite dall'espansione sul mercato della moneta cartacea di emissione governativa e relativi titoli bancari pubblici e privati.

Colossali lavori riguardavano il recupero di vaste aree marine e fluviali, bonifiche e drenaggi, dighe, canali, argini, edificazioni urbane, centri minerari e metallurgici, sedi manifatturiere e di mercato.

Comunicazioni e trasporti per vie terrestri permanevano precari per la continuativa penuria di bestiame bovino ed equino che continuava a marginalizzare altresì lo sfruttamento dell'alta montagna; al contrario le acque - fluviali, lacustri, marine -  fornivano sia capillari collegamenti e trasporti a brevi e lunghe distanze sia habitat permanenti su palafitte, zattere o imbarcazioni, che formavano quasi “città sulle acque”, con impianti persino di itticolture in vivai. La carpenteria navale abitativa segnava allora un primo culmine, collaudando raffinate strutture d'alloggio e di navigazione simili alle moderne navi da crociera, al punto che mercanti e viaggiatori stranieri preferivano di gran lunga imbarcarsi su naviglio Song per sicurezza e confort.


Industrie e commerci puntavano decisamente  sulla valorizzazione della larga facciata marittima e ottenevano dal governo la promozione di una marina mercantile e da guerra per scorta armata, integrata al meglio con la rete delle vie interne, dallo Yangzi agli altri fiumi e grandi canali navigabili. La flotta militare aveva base permanente a Dinghai e cresceva fino a contare oltre 50 mila arruolati. Alcune unità imbarcavano equipaggi fino a un migliaio fra marinai e ufficiali, numero cui arrivavano coi passeggeri pure i mercantili sulle rotte oceaniche, i quali comprendevano  anche personale femminile di bordo (servitù, musicanti, intrattenitrici ecc.).


All'alto cabotaggio erano adibite grandi giunche a compartimenti stagni, manovrate come quelle da guerra con timone di poppa compensato e a trazione a remi e vele o a ruote a pale, montate queste ultime su cilindri orizzontali e azionate a braccia o pedali. La strumentazione includeva le bussole ad ago magnetico.


Smistavano il traffico dello storico porto di Canton (Guangzhou) quelli di Xiamen (Amoy), Mingzhou (l'attuale Ningbo), Hangzhou e ora Quanzhou, nel Fujian. il porto che sarebbe apparso alla fine del secolo successivo agli occhi di Marco Polo come il più grande emporio commerciale del mondo, rimasto famoso in Occidente coi nomi di Zayton o Zaitun.


La Cina era ancora l'unica grande fornitrice mondiale di seta e tè e aveva altre industrie di grande richiamo commerciale, come quelle della porcellana e della lacca. Aveva pure metalli e oreficerie di gran pregio, ma su questi generi, in particolare sulla moneta metallica, gravavano severi divieti d'esportazione, che contrabbando e pirateria erano però in grado di eludere e che aggiravano facilmente, se si pensa che monete cinesi d'epoca Song, insieme con ceramiche coeve, si sono trovate disseminate fin sulle coste orientali dell'Africa, benché rimanga in forse che fossero cinesi a portarvele e non, come è più probabile, mercanti indoiranici o musulmani in genere, che già mediavano i traffici con l'Europa assieme ai bizantini. Basi commerciali cinesi erano estese fino ai golfi del Siam e del Bengala e disseminate lungo le coste del Dai Viet, Champa e Malesia, fino alle coste orientali dell'India. Agenzie permanenti erano dislocate anche nei porti indonesiani.


L'industria pesante Song era rappresentata dalla siderurgia alimentata dal carbon fossile; produceva ghisa fin dal secolo XI per un totale di migliaia di tonnellate calcolate il doppio di quelle dell'Inghilterra sette secoli dopo. I lavorati comprendevano travi di ferro, spranghe, lamiere, condutture idrauliche. Tra le fonti energetiche, all'uso del petrolio per riscaldamento e illuminazione si aggiungeva lo sfruttamento dei gas naturali. Un'imprenditoria pubblica e privata sotto controllo e monopolio governativo operava nelle ricerche minerarie ed estrazioni di metalli, dei quali restavano tuttavia alte le importazioni, regolari quelle dal Giappone in oro, argento e rame. 

Il contrabbando contrastava efficacemente il protezionismo commerciale, messo in atto dai Song fin dal 965 contro il drenaggio di moneta metallica e metalli in genere. Esso si estendeva ad altri generi posti in regime di monopolio all'interno del paese come sale, alcolici, tè, essenze odorifere, profumi, generi tutti oggetto di lucrosi traffici clandestini, oltre che di regolari esportazioni. 


Rimasti proverbiali fin da allora i reati di concussione, pur pagati ad alto prezzo, sulle imposte sui beni, le corvè, le tasse alla produzione e alla distribuzione, i dazi alle frontiere e nei porti commerciali; queste contribuivano ad assottigliare le entrate statali sia nelle esportazioni che nelle importazioni. Le ultime annoveravano nel settore agricolo cereali come varietà di risi dal Sud-Est Asiatico (rinomato in particolare il “riso del Champa”), che predisponevano a colture interne di riso a precoce maturazione e a più raccolti annui in campi anche asciutti e con metodo di semina, senza trapianti da vivai. Sempre dal Sud Est Asiatico, spezie e droghe: pepe, cannella, noce moscata, chiodi di garofano ecc., che erano ormai di consumo antico in Cina, e i Song ne diventavano gli assidui fornitori per il consumo interno e l'esportazione dei regni o imperi loro confinanti (per primi i Liao, poi gli Xi Xia e i Jin, nonché il regno di Dali). A loro volta, da questi i Song importavano lane e tappeti, canape e poi cotone, animali e carni, cuoi, pellami, sterco per i concimi, cera d'api, legname, jinseng, erbe medicinali, pigmenti e polveri coloranti. Da distanze più lunghe (dalle steppe e oasi dell'Asia centrale, dall'India, dall'Iran, dall'Africa) era mediata la provenienza di pietre preziose e semipreziose come la nefrite centroasiatica per la lavorazione della giada, agata, opale, legni duri come l'ebano, avorio, corni di rinoceronte. Tra gli articoli di lusso figuravano l'ambra e le perle di fiume e di mare.


Il Giappone rimaneva il partner commerciale privilegiato anche dall'economia “sommersa” dei Song. Lo stato giapponese viveva un lungo periodo di ritiro ufficiale dalle attività oltremare e soprassedeva alle relazioni internazionali. I Fujiwara al governo di Kyôto scoraggiavano i traffici che fruttavano utili privati alle periferie e soprattutto al Kyushu le cui portualità erano più attive. Ricevevano gli inviati della Cina e della Corea, accettavano e ricambiavano i doni di cortesia, ma escludevano una ripresa dei rapporti ufficiali. Fra il 935 ed il 959 nove missioni commerciali erano provenute dal solo stato di Wu-Yue. Dal 978 erano i Song a inviare propri mercantili nell'arcipelago, ma i traffici clandestini condotti dalle piraterie rimanevano sistematici.

Merci richieste dall'arcipelago rimanevano la seta grezza e le monete cinesi di rame. Queste ultime avevano ripreso a circolare largamente, se mai ne era diminuito il corso, dopo che la politica moneta-ria giapponese aveva subìto una flessione sia per la falsificabilità dei conî nazionali e sia per la scarsità di numerario, una volta che il metallo rimaneva riservato alle armi e agli articoli d'uso civile o della liturgia religiosa o, allo stato grezzo, all'esportazione. Il Giappone contava in quei secoli quasi unicamente sulle monete cinesi per il suo circolante metallico dopo le  ultime emissioni nazionali del 958.

Largo mercato interno incontravano i prodotti artistici e artigianali cinesi, compresi testi manoscritti e a stampa, album illustrati, trattati agronomici e scientifici in generale, opere letterarie e filosofiche, raccolte poetiche, che il mercato della grande editoria Song aveva lanciato con prevalenti xilografie a più matrici per le illustrazioni in policromia.

Fra le mercanzie pregiate figuravano gli “schiavi”, cinesi e coreani, che venivano acquistati a caro prezzo come manodopera altamente specializzata, quando non si trattava addirittura di letterati o artisti. Una volta in Giappone, erano naturalizzati come sudditi. Sarebbe interessante conoscere l'eco che si aveva in Cina di questo “mercato” umano con le sue sparizioni e gli espatri clandestini.

A loro volta, le esportazioni dal Giappone che trovavano maggiore domanda in Cina e Corea restavano le armi bianche, specialmente le spade d'acciaio che erano ormai famose e il cui contrabbando era invano combattuto dai governi. Seguivano zolfo e i metalli citati e, con altri prodotti artigianali, paraventi e ventagli.



26 marzo 2015

 

 

*Adolfo Tamburello già professore ordinario di Storia e Civiltà dell'Estremo Oriente all'Università degli Studi di Napoli 'L'Orientale'.

 

@Riproduzione riservata