Torino, 21 giu. - Ci sono cose degli Stati Uniti che non cessano mai di stupire. Una di queste è la capacità di sintesi e franchezza che Washington sa dimostrare anche in documenti di policy cruciali e delicati come la National Security Strategy (NSS).
Molto attesa, dopo un anno di amministrazione Obama, la NSS 2010 è stata resa pubblica dalla Casa Bianca alla fine dello scorso mese di maggio. Al suo interno, il discorso si articola in tre momenti: un'analisi di come il mondo è oggi, la definizione degli obiettivi degli Stati Uniti per il futuro e l'individuazione degli strumenti necessari per arrivare da qui a lì.
Quanto al mondo - vale a dire all'ordine internazionale che è la costruzione politica realizzata per ridurre i rischi di conflitti -, esso si è fatto più complesso e, nell'introduzione della NSS, il Presidente in persona ammette che questo non potrà essere un altro secolo americano (anche se non è detto che debba essere il secolo di qualcun altro in particolare).
In un contesto simile, l'unilateralismo dell'éra Bush è impraticabile, ancor prima di essere inefficace. Si volta pagina, quindi, con un ritorno al solco tradizionale della politica estera statunitense, che vuole Washington impegnata a rinnovare la propria leadership globale attraverso la promozione e il consolidamento di istituzioni internazionali capaci di maturare in un quadro di consenso diffuso, potendo contare su regole condivise e rispettate da tutti - a partire dagli Stati Uniti medesimi.
Compiendo una scelta di umiltà che conferisce prospettiva e autorevolezza all'intero documento, l'amministrazione Obama ha scelto di anteporre un caveat di politica interna al complesso di azioni che intende intraprendere a livello internazionale: prima dei paragrafi sul nuovo approccio multilaterale (Pursuing Comprehensive Engagement) e sul rilancio dell'ordine internazionale (Promoting a Just and Sustainable International Order), infatti, trova posto una sezione dedicata alla ricostruzione delle fondamenta del potere USA (Building Our Foundation).
Quali sono le fondamenta da consolidare? Il documento esplicita cinque indirizzi: l'economia va riportata su un binario di crescita sostenibile, l'innovazione va promossa attraverso adeguate politiche culturali, l'energia deve poter provenire da fonti diversificate e rinnovabili, e la disciplina fiscale va riconquistata. Si tratta di aspetti essenziali, cui sono rivolte molte righe dense di significato. Ma è il quinto ambito di intervento che colpisce di più per l'ampiezza della riflessione che vi è collegata: si tratta della reinterpretazione dei valori che hanno fatto grande l'America nel mondo. In aperta discontinuità con le due precedenti National Security Strategy del 2002 e 2006, gli Stati Uniti si impegnano ora a guidare con l'esempio, restituendo dignità a un modello di società che in anni recenti ha patito lo scollamento tra retorica politica e prassi di governo.
E' su questo punto - sulla capacità, cioè, di esercitare soft power - che si giocherà la partita più avvincente nei rapporti tra Stati Uniti e Cina, stando alle prospettive contenute nella NSS di questa prima presidenza Obama. Non che manchino riferimenti più o meno obliqui alla rivalità geopolitica tra il fondatore dell'odierno ordine internazionale e l'emergente gigante asiatico, beninteso. Vi sono espliciti riferimenti alla necessità di "monitorare la modernizzazione militare cinese" e viene sottolineato il permanere dell'impegno di Washington al fianco dei propri alleati, a partire da quelli asiatici (Giappone in primis). Tuttavia, lo sforzo cui il documento chiama la politica estera statunitense è focalizzato sull'engagement, ossia sulla socializzazione dei nuovi attori emergenti in un ordine riformato di cui si sentano pienamente parte e rispetto al quale accettino di assumersi oneri e responsabilità. Una politica di respiro globale, che poggia su una concezione del potere come di un gioco non a somma zero, l'unica ragionevole nel quadro di un mondo profondamente interconnesso qual è quello in cui viviamo oggi.
Eppure, la portata planetaria di molte delle sfide che toccano da vicino persone e governi - dall'inquinamento, al terrorismo, passando per la sicurezza alimentare e la proliferazione nucleare - non implica il venir meno della tradizionale competizione tra potenze, tanto nei rapporti bilaterali, quanto nelle relazioni con stati terzi. La NSS 2010 non ignora questa sfida, e sembra reagirvi riponendo molta enfasi appunto sul ruolo morale degli Stati Uniti e sulla bontà del proprio modello civile. Qui l'irriducibilità della dialettica con la Repubblica Popolare Cinese è destinata a permanere e forse ad accentuarsi.
Se Pechino non cerca altro che stabilità nelle relazioni internazionali, di certo non può passare inosservato il senso di orgoglio per aver superato prima e meglio di altri (per ora) una crisi economica tutta made in the West. Come reso evidente ancora di recente dalla pubblicazione del Libro Bianco su Internet in Cina, il Partito Comunista Cinese non ha paura della modernità e sta cercando - e in parte trovando - una strada originale che coniuga progresso economico, responsività controllata dello Stato nei confronti della popolazione e permanenza incontrastata del PCC alla guida del Paese. Steve Tsang, di Oxford, ne parla come di "leninismo consultativo", una novità nell'articolata e altrimenti assai decadente famiglia dei sistemi autoritari di matrice socialista.
Dobbiamo concludere che ci attende una nuova battaglia per le menti e per i cuori, magari da giocarsi in Africa, Medio Oriente e America Latina? Non in termini così netti. Ma occorre essere consapevoli che almeno dal 15 settembre 2008 l'autorevolezza del nostro modello occidentale è compromessa, mentre lo stesso non si può dire per l'efficacia di quello cinese, al momento. Il fatto che la Cina resti "diversa" per cultura e sistema socio-politico, unito alla crescente fiducia di Pechino nei propri mezzi e nel proprio ruolo geopolitico in Asia, è un fattore di grave disagio negli Stati Uniti. La storia insegna che in momenti di preoccupazione per le condizioni interne del Paese, inoltre, gli americani tendono a ingigantire presunte minacce esterne, una condizione pericolosamente favorevole a incomprensioni e scelte politiche che alimentano la diffidenza e possono portare al dilemma delle profezie che si auto-avverano.
Aver scelto di porre il risanamento - economico, sociale e morale - degli Stati Uniti alla base della strategia di politica estera del proprio mandato conferma la lungimiranza del presidente Obama. Che questa scelta possa anche produrre, come sovente capita nei rapporti transatlantici, effetti imitativi in Europa a distanza di qualche anno sarebbe un effetto secondario di sicuro non programmato, ma nondimeno benvenuto.
di Giovanni Andornino
Giovanni Andornino è docente di Relazioni Internazionali dell'Asia Orientale presso la Facoltà di Scienze Politiche dell'Università di Torino e la Facoltà di Scienze Linguistiche dell'Università Cattolica del Sacro Cuore; è Vice Presidente di T.wai, il Torino World Affairs Institute.Dal 2009 Visiting Professor presso la School of Media and Cross Cultural Communication, Zhejiang University Hangzhou (PRC), Giovanni è Fellow della Transatlantic Academy del German Marshall Fund of the United States per il 2010.Giovanni è General Editor del portale TheChinaCompanion (www.thechinacompanion.eu), specializzato in politica, relazioni internazionali ed economia politica della Cina contemporanea. Dal 2007 coordina TOChina, l'unità di lavoro sulla Cina attiva presso la Facoltà di Scienze Politiche dell'Università di Torino (www.to-asia.it/china).
La rubrica "La parola all'esperto" ha un aggiornamento settimanale e ospita gli interventi di professionisti ed esperti italiani e cinesi che si alternano proponendo temi di approfondimento nelle varie aree di competenza, dall'economia alla finanza, dal diritto alla politica internazionale, dalla cultura a costume&società. Giovanni Andornino cura per AgiChina24 la rubrica di politica internazionale.