Da Los Angeles a Ouagadougou, da un continente all’altro, nei giorni scorsi è stato celebrato il cinema africano e afrodiscendente. Due contesti totalmente diversi, le due facce della stessa medaglia: il talento dei suoi artisti – sia registi che attori o costumisti – storicamente oscurato ma sempre più elogiato.
L’edizione 2019 degli Oscar è stata per lo più un inno alla diversità, ad ogni tipo di minoranza, dopo decenni di dimenticanze verso il cinema black, ma non solo. Premiati Rami Malek, americano di prima generazione, figlio di immigrati egiziani, le afroamericane Regina King, Ruth Carter e Hannah Beachler, e il grande Spike Lee. Così nel commentare i risultati, molte testate hanno pubblicato un elenco dei “premi più politici di questi #OscarSoBlack”.
Intanto, nel silenzio del mainstream informativo, a migliaia di chilometri di distanza, per l’esattezza a Ouagadougou, capitale del Burkina Faso, sfidando la minaccia del terrorismo di matrice jihadista, in un clima di festa popolare, dal 23 febbraio al 2 marzo si è svolto il Fespaco (Festival panafricano del cinema di Ouagadougou). Questa più delle altre è stata un’edizione speciale che ha celebrato il cinquantenario del festival di cinema e televisione più importante di tutto il continente, nato nel 1969, quando il paese si chiamava ancora Repubblica dell’Alto Volta, per “far vedere immagini dell’Africa, dall’Africa e per l’Africa”.
Cinquant'anni dopo la missione rimane la stessa, ma il contesto è fortemente cambiato. Sul continente sono tante le sfide da affrontare per chi fa cinema, in condizioni sicuramente più complesse rispetto ad altre aree del mondo. “Memoria e futuro dei cinema africani” è stato il tema centrale di XXVI edizione speciale della biennale.
A Ouagadougou, città considerata la Mecca del cinema africano, culla dei principali registi, sede di una biblioteca specializzata e di una fiera dei professionisti, i protagonisti della settima arte si sono confrontati sui cambiamenti dell’industria, sulle strategie da attuare per conquistare nuovo pubblico e per raggiungere l’autonomia finanziaria.
Come i personaggi dei film in gara ogni due anni per ottenere il prestigio ‘Etalon de Yennenga’ (Stallone di Yennenga), che ricompensa il miglior film tra una ventina selezionati, negli ultimi decenni il cinema africano è sopravvissuto a tante vicissitudini: il passaggio dal colonialismo all’indipendenza – molto sentito in Burkina Faso con l’arrivo al potere nel 1984 del presidente Thomas Sankara che ha salvato lo storico ‘Ciné Burkina’ –, seguito dal conflitto successivo al colpo di stato del 1987 e l’uccisione del ‘padre della patria’, poi la digitalizzazione, la concorrenza dei falsi Dvd, il declino della produzione africana e dal 2016 persino l’insicurezza, con l’irruzione del terrorismo jihadista che ha mietuto decine di vittime nel pacifico ‘Paese degli uomini integri’, con attentati e rapimenti, facendo allontanare i viaggiatori occidentali. Dall’ultima edizione il festival si svolge tra ingenti misure di sicurezza, in un clima di diffidenza, con controlli degli spettatori ai metal detector e guardie armate nei luoghi delle proiezioni, aperte a tutti al centro di Ouagadougou.
Novità di questa edizione è stata la creazione di una sezione dedicata ai documentari, aggiungendosi alle categorie storiche dei lungometraggi in gara e non, cortometraggi, film di animazione, film delle scuole africane e serie televisive. Per il cinquantenario sono stati proiettati alcuni dei grandi classici del cinema africano in versione restaurata – tra cui le opere dei ‘maestri’ burkinabè Missa Hébié e Idrissa Ouédraogo – per rendere omaggio ai registi più illustri, oltre alle opere della diaspora africana nel mondo. In tutto 165 proiezioni partecipate da 100 mila persone.
Una giuria di prestigio presieduta dal regista burkinabè Gaston Kaboré, di cui fanno parte il filosofo e storico camerunese Achille Mbembe, lo scrittore senegalese Felwine Sarr e l’ex ministro della Giustizia francese, Christiane Taubira.
Paese ospite d’onore è stato il Ruanda e, per la prima volta nella sua storia, i paesi anglofoni sono stati ben rappresentati rispetto alla tradizionale predominanza di opere in lingua francese, che spesso si sono portati a casa lo Stallone d'oro di Yennenga.
Quest’anno è andato al regista ruandese Joël Karekezi per il suo lungometraggio “The Mercy of the Jungle” coproduzione franco-belga che denuncia l’assurdità della guerra attraverso la storia di due uomini, un congolese e un ruandese, nelle montagne del Kivu all’inizio della seconda guerra del Congo, nel 1998. Con delicatezza, secondo la critica, il regista ha saputo affrontare un tema forte e difficile, che riporta all’attenzione del pubblico intrighi e incertezze sugli attori della guerra nell’est del Congo. Proprio in quella regione crudele opera il Nobel della Pace, il ginecologo Denis Mukwege, ‘l’uomo che ripara le donne’ vittime di stupri.
L’edizione precedente, nel 2017, era stata vinta dal franco-senegalese Alain Gomis con il suo film ‘Félicité’, la storia di una cantante alle prese con la corruzione del sistema sanitario pubblico in Repubblica democratica del Congo e che fa il tutto per salvare il proprio figlio gravemente ferito, raccogliendo ingenti somme di denaro.
Della cerimonia di apertura, tra fuochi d’artificio e concerto della famosa band ivoriana i Magic System, c’è da ricordarsi le parole forti e molto politiche del presidente della Commissione dell’Unione africana (Ua), il ciadiano Moussa Faki Mahamat.
“La messa in discussione del multilateralismo e di conseguenza del multiculturalismo, segnata dall’impennata degli egoismi nazionali, del populismo e del ripiego su se stessi ci interpella profondamente sul posto dell’Africa nel mondo che si forma sotto i nostri occhi. Non si tratta di lamentarsi né di implorare la carità degli altri. Tale comportamento sarebbe una violenta aggressione alla nostra alterità e dignità. Non saranno certo i nostri gemiti o le nostre lacrime ad intenerire quelli che hanno costruito la propria potenza e gloria emarginandoci e traendo vantaggi indebiti dalla ricchezza del nostro continente” ha detto sotto applausi fragorosi il presidente della Commissione Ua.
Rivolgendosi ai registi e a tutti i professionisti del cinema, Mahamat ha riconosciuto in loro “gli artigiani, i guardiani e i promotori del nostro statuto mondiale, del nostro futuro”. Il cinema del continente, in particolare quando si rivolge “ai nostri giovani che sembrano cedere alla disperazione, potrebbe dare un contributo insostituibile al progetto panafricanista e arginare il male” ha auspicato il leader ciadiano.
Anche in Africa il cinema, l'arte è impegno politico: ci racconta i mille volti (nascosti) del continente giovane in rapida trasformazione che finora, dall'altra sponda del Mediterraneo, conosciamo così poco.